Baby gang, 12 anni e la severità perduta

di Adolfo Scotto di Luzio
Sabato 20 Gennaio 2018, 09:30
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Se il ministro dell’Interno, Marco Minniti, viene a Napoli e dice che, di fronte alla violenza dei minori, intervenire sul codice abbassando l’età imputabile non è la risposta giusta, questo può voler dire due cose. O che, effettivamente, il ministro Minniti la pensa così – e d’altronde non è il solo su questa strada; oppure che il ministro Minniti non ha la forza politica per imporre al governo e all’opinione pubblica il principio per il quale a dodici anni si possa essere chiamati a rispondere penalmente di comportamenti molto gravi, come aggredire, ferire, attentare alla vita di qualcuno, uccidere. Sarebbe questa una risposta politica, esercitata nel nome dell’autorità dello Stato, ai ripetuti atti di violenza minorile che hanno agitato Napoli in queste ultime settimane. Siccome non siamo nella testa del ministro e ogni ipotesi al riguardo sarebbe puramente speculativa, vale la pena chiedersi non quali siano i suoi pensieri sull’argomento ma che cosa voglia dire fornire una risposta politica alla crisi napoletana.

Le pagine dei giornali sono piene di riflessioni sociologiche sulla violenza, sui bambini, sull’educazione e così via. Tutta la discussione pubblica sui casi napoletani di queste settimane è costruita sull’esplicito rifiuto di parlare di quello che pure tutti hanno visto (e che solo le madri delle vittime sono in grado di sentire in termini autentici). Il meccanismo dell’opinione pubblica, i giornali, i dotti commenti che hanno ospitato, le dichiarazioni dei magistrati, dei politici, degli educatori, insomma l’intero apparato addetto alla rappresentazione della realtà agisce invece nel senso di impedire di riconoscere quello che pure ad un occhio spassionato è del tutto evidente: la confusione tra un mero dato anagrafico e un concetto culturale, quale quello di infanzia. Avere dodici anni non significa per forza essere dei bambini.

Mentre l’ età della vita è largamente un costrutto della cultura, un’ invenzione che ogni epoca coltiva caricandola di significati destinati a trasformarsi, la condizione per la quale essendo nato in un certo punto della catena del tempo nel momento attuale ho un certo numero di anni, questo è un mero dato. Potenzialmente significativo ma vuoto fino a quando, appunto, non viene riempito di immagini, di valori, in una parola di cultura.

Noi abbiamo definito la nostra idea di infanzia sulla base di presupposti che quasi mai sono realizzati nei contesti in cui maturano le scelte criminali oggi agli onori delle cronache. Questi presupposti sono tre: l’aristocrazia (il bambino in quanto soggetto storicamente riconoscibile è innanzitutto il figlio del principe, l’ingenuus, il nato libero), la cultura umanistica che si incarica della formazione di quel fanciullo in quanto uomo, lo sviluppo della democrazia come diffusione a livello di massa degli ideali educativi storicamente propri delle élite sociali. Fuori da questa successione storica, quella che prevale è una concezione dell’«infanzia» come difetto, il bambino è un non ancora uomo. Come tale dunque non ha una sua posizione autonoma nel sistema della vita. Aspetta di crescere. Nei quartieri sottoproletari della città e della sua periferia è una concezione largamente diffusa.

Che vuol dire allora, in questo quadro, una risposta politica alla crisi napoletana? La qualificazione politica di un ragionamento è, innanzitutto, la possibilità di rispondere alla domanda: chi è il soggetto? Lo Stato? A Napoli, la risposta pressoché unanime è la comunità, la rete associativa. Il Soggetto non esiste, semmai i soggetti, doverosamente al plurale. Eppure a Napoli, per molteplici ragioni, questi soggetti sono clamorosamente inadempienti. I quartieri a rischio pullulano di iniziative cosiddette sociali, nessuna di queste ha mai scalfito di un millimetro l’ adamantina realtà della dispersione scolastica, della devianza giovanile, della diffusione della droga, della presenza pervasiva, opprimente, militare, della criminalità. Allora, tanto per fare un esempio, la scelta napoletana è tra una scuola pubblica che funzioni e le vaghissime comunità educanti. Vale a dire, tra un intervento diretto dello Stato e il volontarismo caotico e inefficiente dei privati, siano essi preti, maestri di strada o chi altro vi pare. A Scampia la scuola c’è e funziona. Abbiamo letto ieri l’intervista alla professoressa Rosalba Rotondo, preside dell’ istituto «Ilaria Alpi – Carlo Levi». In quella scuola migliaia di ragazzi vengono quotidianamente muniti di strumenti culturali per costruirsi una vita degna. Badate, non si dà loro questa vita ma si mettono i ragazzi nelle condizioni di potersela procurare. Nessun don Milani ha mai fatto quello che ha fatto la scuola pubblica per milioni di bambini poveri nel nostro paese. Siamo passati da contadini analfabeti a italiani esclusivamente per l’impegno quotidiano di maestri e professori reclutati per il servizio scolastico nazionale. L’ attuale sfiducia di sinistra nei confronti dell’autorità della scuola pubblica, della sua severità e selettività, è una forma inspiegabile, almeno per me, di oscurantismo culturale.

Alla stessa maniera bisogna interrogarsi sulla imputabilità dei dodicenni. Non per sbatterli in galera ma per avere uno strumento efficiente e rapido di intervento. Per poter segnare nello spazio sociale la linea netta della responsabilità in modo che risulti chiaro che a certi comportamenti corrispondono certe conseguenze. E sulla base di queste conseguenze poter reagire per mezzo della legge. L’alternativa sono i centri polifunzionali, strutture con progetti di impegno e di educazione del ministro Orlando. Qualcuno ci crede? Ma, soprattutto, qualcuno ha un’ idea di cosa debbano essere in concreto o come debbano conseguire i loro risultati?

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