«Papà che fai?». Oltre tremila bimbi violentati, le condanne non vanno oltre i due anni

«Papà che fai?». Oltre tremila bimbi violentati, le condanne non vanno oltre i due anni
di Maria Pirro
Lunedì 2 Maggio 2016, 08:58 - Ultimo agg. 17:36
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«Non dire niente a mamma». E per sette anni Stella resta in silenzio: per le minacce e «per non mandarlo in galera», racconta, quasi maggiorenne, a magistrati e psicologi, accusando suo padre. Violentata come altre 3640 bambine e adolescenti seguiti dai servizi sociali nella penisola, secondo un’indagine promossa dal Garante dell’infanzia; mentre la storia choc della piccola di Caivano, stuprata e uccisa, accende un faro sull’orrore nascosto.  



Stella è l'altra faccia di Fortuna: anche lei ha provato a ribellarsi, ma ha potuto raccontarlo. «Una volta che volevo scappare, avevo 11 o 12 anni, perché mi ero stufata, aveva cominciato a tirarmi i capelli e me l'aveva messo. Allora ero esplosa in lacrime, e mi aveva detto: sei stupida, perché piangi?». Poi c'è Alessia, a quattro anni violentata dal papà e a sei anche dall'amante di sua madre, che rivela: «Quando l'avevo detto a mamma mi aveva risposto che non era niente, come se fosse mi fossi fatta un taglietto». Fino agli otto anni di età, la bimba viene stuprata almeno una o due volte a settimana dai due orchi di casa ed entrambi le ripetono: «Ti facciamo diventare grande».

Alba non li definisce neppure abusi: «Si giocava a nascondino per poi trovarlo nudo, con i pantaloni abbassati. Questo sin dai sei anni. All'inizio non era violenza perché avveniva tutto come una cosa fatta senza cattiveria... Mi chiudeva nella stanza con lui, metteva dei film pornografici, dove erano ritratti dei bambini e mi faceva fare tutto ciò che vedevo in televisione». A violarla un amico dei genitori, troppo spesso al lavoro e all'oscuro delle tribolazioni interiori della figlia. «Avevo paura della loro reazione e mi tenevo tutto dentro». Il suo e gli altri racconti, registrati dai pm, sono riportati nel libro, atroce e intenso, "Abuso sessuale sui minori. Scenari dinamiche e testimonianze", edizioni Antigone, scritto dalla ricercatrice Giuliana Olzai, che ha vagliato tre anni di 180 processi e sentenze del tribunale di Roma, 196 imputati, il 77 per cento condannati per abusi su 185 bambine e 53 maschi. Tutti vittime di pedofili, soprattutto di parenti (29%), aggrediti da conoscenti e vicini di casa o, appunto, amici di famiglia (39%).

Orchi che, nella metà dei casi, grazie ad attenuanti e meccanismi di legge, hanno avuto pene miti: «Due anni in media», spiega Olzai. «Inoltre, solo dal 2013 è previsto che dopo il verdetto non si avvicinino ai luoghi frequentati dai bambini e non lavorino a contatto con loro per almeno un anno; mentre questo divieto in Francia è perpetuo». Così come può accadere che i pedofili siano di nuovo avvistati nei paraggi, se non si aggirano già nel salotto di casa. «Spesso è il Tribunale dei minorenni che mette al sicuro i bambini, quando è necessario allontanandoli dal contesto. Può essere la prima misura per proteggerli», dice il presidente del palazzo di giustizia di Napoli, Maurizio Baruffo, che spiega: «A volte la madre collabora, altre volte è in combutta con il padre. E non mancano le false denunce durante una separazione burrascosa».

Di certo, «il numero di casi purtroppo è in aumento». Per Baruffo è un effetto del «degrado culturale ed etico, aggravato dalla crisi». Aggiunge: «Tutte le storie sono raccapriccianti, tra le vittime compaiono anche bimbi disabili, e i processi non sono mai facili, dal punto di vista della prova. Se non si trovano tracce fisiche o un bambino più grande che parla, è complesso valutare la credibilità del racconto». La neuropsichiatra dell'Asl di Napoli, Luisa Russo, chiarisce: «I bimbi spesso ripetono quello che vuole sentirsi dire un adulto. In un campo tanto delicato il rischio è di far assolvere chi è colpevole, oppure far condannare un innocente». Il colloquio avviene quando il bambino è pronto, non in presenza dei genitori. Primo step: si chiede cosa fa a scuola, domande di contesto in modo da valutare la capacità di descrizione dei fatti. Poi si passa ai disegni, «per metterlo a suo agio», e si può chiedere «se fa dei brutti sogni».

La risposta può essere agghiacciante, come questa data da una bimba di 5 anni napoletana, abusata da un operaio nel condominio: «All'improvviso ho visto il lupo e non potevo fare niente. Poi mi sono girata ho dato dei pugni e tutto è finito». Si cerca di rievocare il momento traumatico, ma senza interrogativi diretti o suggestivi. Ad esempio, nel fare un disegno la vittima può riuscire ad aprirsi con più tranquillità. Sul foglio sempre la stessa bambina indica un letto, una mano («ma senza dire a parola sull'accaduto») e poi la sua sagoma a terra, gettata da quella stessa mano: è ferita nel cortile di casa. Un altro bimbo napoletano, ricoverato in ospedale, disegna la famiglia ma non il papà, e la psicologa gli chiede: «Forse manca qualcuno?». Lui replica: «Chi? Quel mostro di mio padre?» Da quel momento l'ometto si stacca dalla madre, raddrizza la postura e alza lo sguardo. Dice la psicologa Elvira Reale, responsabile dello sportello anti-violenza del Cardarelli, che ne ha raccolto lo sfogo: «I bambini sono più pronti a parlare nell'immediatezza dei fatti: per loro è una liberazione, ma vanno ascoltati innanzitutto, e non forzati».

È più difficile invece intercettare le violenze in famiglia. E anche quando la vittima trova la forza di vincere minacce, istintivi sensi di colpa e vergogna spesso non viene sostenuta: soprattutto se l'orco è un parente. «Il 31 per cento delle madri non crede al racconto se le bambine accusano il padre», afferma Olzai.Silvia Ricciardi è responsabile dell'associazione Jonathan, che gestisce comunità per minori a due passi dal Parco Verde di Caivano. «La casa di Luca ha accolto per sette anni vittime di violenze, abusi e maltrattamenti su disposizione del tribunale, poi ha chiuso per i ritardi nei pagamenti da parte degli enti locali». Spiega: «Mentre avviene il percorso di psico-diagnosi, che può durare diversi mesi, il compito della struttura è far riprendere al bimbo una vita normale: deve ritornare a scuola, ma in una diversa da quella d'origine, fare sport o catechismo, partecipare alle feste, ma è importante che gli operatori siano adeguatamente formati perché i bimbi segnati sono spesso nervosi o aggressivi».

Ultimo passo può essere darli in adozione, «se tutta la famiglia è collusa e non recuperabile. Ma anche trovare coppie che si impegnino e riescano ad aiutarli non è facilissimo. Già nella fase preadolescenziale e se gli abusi sono avvenuti per molto tempo non sempre sono disponibili o abili», aggiunge Baruffo. Un altro problema è che «in Italia ancora non c'è un sistema informatico per la raccolta dati, istituzionalizzato omogeneo, e quindi una adeguata rete di monitoraggio per adottare misure di prevenzione, mentre la diffusione di internet aumenta il rischio di adescamenti», interviene Vincenzo Spadafora, già garante dell'infanzia e promotore dell'indagine sui maltrattamenti, che sottolinea le differenze con altri paesi europei. Forse è per questo che l'incidenza della violenza sessuale in Italia appare fra le più basse? «Ma provoca vissuti sanabili nella misura in cui si lavora e ci si impegna ad aiutare le vittime». Sottolinea Spadafora: «Spesso, anche la capacità di ascolto verso bimbi e adolescenti è limitata: quante volte si sarebbero potuti evitare orrori più grandi, se solo avessimo alzato il nostro livello di attenzione...».