Camorra, intervista a Cantone: «Non bastano mille arresti, ora un piano straordinario per la città»

Camorra, intervista a Cantone: «Non bastano mille arresti, ora un piano straordinario per la città»
di Marilicia Salvia
Domenica 7 Febbraio 2016, 10:51
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Serve coraggio. Il coraggio «di guardare in faccia la realtà e capire che cento, mille arresti possono essere giusti e necessari, ma non basteranno a chiudere la partita». Che «cento, mille uomini in divisa potranno essere utili, ma non riusciranno a tagliare tutti i tentacoli del mostro». Raffaele Cantone, presidente dell’Autorità anticorruzione, un passato recente di magistrato in prima linea nella sfida alla criminalità organizzata, conosce a memoria il territorio martoriato nel quale si va consumando un’ennesima, tragica guerra di camorra. «Serve coraggio», insiste, perché per Napoli «è il momento di mettere in campo soluzioni nuove: è il momento - sottolinea - di intervenire una volta per tutte sulle cause» che continuano ad alimentare l’orrore.

Cantone, come spiega la nuova mattanza che sta insanguinando Napoli?
«I clan in azione oggi non sono più le potenti e solide strutture gerarchiche che abbiamo conosciuto fino alla guerra di Secondigliano, ma violente bande criminali. Dentro ci sono giovani sbandati, ragazzi di periferia senza soldi e senza prospettive al comando di leader più o meno riconosciuti che ambiscono a conquistarsi fette di potere nel mercato della droga. In questo contesto la violenza è regola, una violenza cieca».

I numeri sono impressionanti, fra giovedì e venerdì tre morti in 26 ore. Un’escalation prevedibile?
«Soprattutto, un’escalation alla quale andava posto e va posto argine con misure diverse. Non basta mettere il pilota automatico, convocare il comitato per l’ordine pubblico e mandare un po’ di uomini in più. Serve un piano, un piano serio, ampio, straordinario».

Che cosa immagina esattamente?
«Partiamo da un dato empirico, molto semplice. Nell’hinterland napoletano il reddito dichiarato, ufficiale, è tale per cui dovremmo essere alla tragedia, o alla guerra civile. Invece il tenore di vita è accettabile, spesso decisamente alto. Un miracolo? No, il risultato della persistenza di un welfare parallelo. Un anti-Stato che si insinua nel disagio sociale, tra i ragazzini che lasciano la scuola, nelle famiglie dove gli adulti hanno perso il lavoro e i giovani non lo trovano».

Più che repressiva, insomma, la risposta deve essere politica.
«Finora Napoli ha contato davvero poco nell’agenda nazionale. È arrivato il momento di trovare il coraggio di dire che cosa si vuole fare per questa parte del Paese. Nella chiave dello sviluppo, della crescita è importante che si voglia sbloccare Bagnoli, è importante che arrivino grandi nomi come la Apple, ma non basta: io dico che serve un vero, grande piano straordinario. Servono trasporti e infrastrutture, serve favorire una crescita armonica del territorio. Perché poi il problema non riguarda solo Napoli ma la sua immensa area metropolitana».

Ma Napoli è in piena campagna elettorale, il momento buono per promettere e poi dimenticare. E, dall’altra parte, lei sa bene che ottenere un’azione coordinata tra le istituzioni è impresa ardua. A chi tocca dare un segnale: al sindaco, al governo?
«So bene che i livelli di responsabilità sono tanti e diversi. Io dico che occorre una vera presa di coscienza, serve che qualcuno si accolli l’onere e il dovere di agire in senso ampio, per togliere il più possibile radici a un sistema che altrimenti si alimenterà sempre di più. La camorra sta dimostrando ancora una volta la sua duttilità. È stata la prima organizzazione criminale a coinvolgere direttamente le donne, la prima a dare compiti di gestione ai transessuali. Adesso sta cambiando pelle. È la camorra dei ragazzini, perché le grandi retate hanno portato in carcere i boss più importanti e disarticolato i clan. Il bacino della nuova manovalanza criminale è il bacino dei giovanissimi, ed è un bacino enorme perché il disagio sociale è enorme».

E tuttavia il disagio sociale è trasversale in questo Paese che fa fatica a uscire da una crisi economica durissima. Perché Napoli resta un’anomalia, sul piano della incisività della presenza criminale?
«I numeri della guerra di camorra, in questo momento, sono in controtendenza anche rispetto ad altre aree a presenza mafiosa. In Sicilia, in Calabria non si spara quanto si sta sparando qui. Ecco perché non basta la risposta repressiva. Possiamo metterne in carcere cento, altri cento prenderanno il loro posto sul campo».

Si potrebbe dire: problemi di Napoli, se la vedano tra loro.
«Errore grave. Proprio perché il tema di fondo è l’emarginazione sociale, la risposta riguarda tutti. La guerra tra bande criminali per la droga è guerra comune e Napoli è un incubatore di un fenomeno che rischia di esplodere in tutte le grandi città».

Per ampliare il raggio d’osservazione, le sembra che da parte delle istituzioni ci sia stato nel tempo un arretramento nell’impegno contro la criminalità organizzata? Come giudica le polemiche che si sono sviluppate sulla gestione - secondo alcuni malagestione - dei patrimoni confiscati ai boss?
«Togliere ricchezze ai criminali è indispensabile. E quello delle confische è uno strumento fondamentale anche sul piano dell’immagine: riconvertire ad uso sociale e creare lavoro in immobili o terreni sottratti ai boss ha una valenza enorme anche sul piano di quella forma di riqualificazione sociale di cui parlavamo prima. Ciò premesso, è probabile che nei circuiti possa essersi inserita qualche mela marcia. Misure come la creazione dell’albo degli amministratori e una regolamentazione sui loro compensi aiuteranno a evitare errori. Ma il sistema funziona: bisogna stare attenti a non passare dai peana al crucifige, il danno sarebbe doppio».

Dall’Antimafia sociale alle pubbliche amministrazioni, il nodo che soffoca il Paese resta quello della trasparenza. O, letto al contrario, dell’opacità delle azioni nei rapporti fra pubblica amministrazione e cittadini. Lei presiede dalla sua istituzione l’Anac, l’Autorità anticorruzione che nella sua breve vita è stata chiamata a curarsi di tutto, dal Mose ai fallimenti bancari. Quanta pressione sente intorno al suo ruolo?
«Passi in avanti ne sono stati fatti, poi è chiaro che certi processi maturano negli anni. L’Anac sempre più sta diventando autorità di regolazione, per esempio nel sistema degli appalti. Purtroppo è vero, viviamo in un Paese ad altissimo tasso di corruzione e anche di corruttibilità: una delle ragioni, non l’unica, sta nella complessità di un sistema burocratico che consente molte, troppe “deviazioni” dal percorso virtuoso. È un ventre molle dal quale si può uscire solo attraverso una vera, profonda riforma della pubblica amministrazione».

In questo ventre molle, tuttavia, ci sta dentro di tutto: anche atti perfettamente legittimi, che per il solo “difetto” di nascere da scelte discrezionali finiscono sotto la lente della magistratura, alla voce abuso d’ufficio. L’ultimo esempio arriva dal caso De Luca, con tutte le polemiche conseguenti sulla legge Severino. Ha ragione chi ricorda che in politica la discrezionalità è vitale, e chiede per questo l’abolizione del reato?
«Attenzione: noi non ci possiamo permettere, in questo momento storico e in presenza di fatti corruttivi ancora ampi e invasivi, di abbassare il livello di intervento e di controllo. Senza un intervento della magistratura non avremmo scoperto, per esempio, Mafia capitale. Nella pubblica amministrazione non ci sono ancora anticorpi alternativi al controllo della magistratura inquirente che esercita di fatto un potere di supplenza; in queste condizioni è sbagliato e anzi pericoloso parlare di invasione di campo».

E tuttavia è un fatto che quasi mai l’accusa di abuso d’ufficio, ammesso che superi lo scoglio del primo grado, ottenga la conferma in appello.
«Vero. Ma neanche questo è sufficiente per immaginare l’abolizione del reato. La soluzione, a mio modo di vedere, è un’altra. E ha strettamente a che fare con la legge Severino. Che va certamente riformata, sollecitazione che per quanto mi riguarda vado proponendo non da ieri, non dal caso De Luca».

Vediamo.
«In molti propongono di depennare tout court l’abuso d’ufficio dall’elenco dei reati cui è applicabile la Severino. Sarebbe invece utile immaginare di far scattare la sospensione prevista dalla Severino per i pubblici amministratori e per i dirigenti solo dopo la sentenza di secondo grado, e solo nei casi in cui ci sia stata condanna in entrambi i gradi. Questa soluzione toglierebbe per così dire drammaticità al processo per abuso d’ufficio: che potrebbe svolgersi nei tempi propri e in un clima più sereno, senza le pressioni legate al destino della carica pubblica, o dell’incarico, nel caso dei dirigenti».

Si salverebbe, così, anche la Severino dalla graticola delle critiche, inevitabili ogni volta che l’aspirazione di un eletto del popolo a governare si infrange contro rischi di sospensione che, come insegnano i casi di De Luca e di de Magistris, si rivelano a processo concluso ingiustificati. Il punto è: siamo certi che una legge così “disapplicata” sia credibile, e soprattutto utile?
«La legge Severino è utile e importante, non fosse altro perché è una legge bandiera. Ma per sventolare alte e visibili, le bandiere non devono avere buchi o strappi: perciò se sistemeremo una serie di errori e debolezze le daremo nuova forza ed efficacia».

Siamo al bivio decisivo?
«La vicenda De Luca è esemplare. Ha rischiato di essere sospeso per una condanna in primo grado caduta in appello: la sospensione gli avrebbe causato un danno irreparabile. E se non è stato sospeso è solo per effetto della “sospensione della sospensione” decretata da altri giudici: in sostituzione dei politici, a modificare la legge di fatto ci stanno pensando loro. Ed è una supplenza necessaria, le storie paradossali sono tante: basti pensare al sindaco di Agrigento che condannato per abuso d’ufficio in primo grado si è dimesso, poi correttamente non si è ricandidato, e intanto in secondo grado è stato assolto. O al sindaco di Terzigno che, di converso, pur condannato e sospeso è poi stato eletto parlamentare».

Paradossi, ma anche disparità di trattamento.
«Che si traducono in un depotenziamento della legge, in una caduta di credibilità. Non ce lo possiamo permettere. Il principio alla base della Severino, ossia l’interesse della pubblica amministrazione ad essere tutelata rispetto a soggetti indegni, è troppo importante per non essere salvaguardato: dunque ferma restando la sospensione per i reati più gravi, quali concussione, corruzione e reati mafiosi, l’idea che per l’abuso d’ufficio il provvedimento scatti solo dopo il secondo grado e solo in caso di doppia condanna potrebbe rappresentare un buon punto d’equilibrio».
E forse una soluzione un po’ più vicina al dettato costituzionale della presunzione di innocenza.
«Anche. Ci sarebbe una gradualità dei provvedimenti di sospensione in rapporto alla gravità dei reati: nei casi più odiosi impedire il governo della cosa pubblica è interesse prevalente, ferme restando le garanzie successive».
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