Fortuna, il procuratore Greco: «Pedofilo incastrato dalle intercettazioni»

Fortuna, il procuratore Greco: «Pedofilo incastrato dalle intercettazioni»
di Mary Liguori
Domenica 1 Maggio 2016, 01:02 - Ultimo agg. 13:15
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«Hanno manipolato le bambine, ma una volta fuori dal contesto familiare e, lontane dal degrado del Parco Verde, le piccole hanno riacquistato fiducia in se stesse e negli adulti: così abbiamo scoperto chi era pedofilo». Il procuratore di Napoli Nord Francesco Greco, che ha coordinato il pool che ha dato un nome al presunto assassino della piccola Fortuna Loffredo, analizza le fasi salienti di un’inchiesta delicata, che ha portato allo scoperto non un caso isolato di violenza su minori, ma una rete di pedofili che ha agito indisturbato, per anni, dentro le mura delle palazzine dell’Iacp di Caivano. In un clima di complice omertà, dove lo Stato è nemico non solo se blocca il flusso costante di droga che è il motore dell’economia locale, ma anche se arriva per tutelare i bambini, le difficoltà degli investigatori sono state immani, e i magistrati impegnati sul caso hanno dovuto affrontare e gestire situazioni che scatenano inevitabilmente una reazione di tipo emozionale.

Procuratore Greco, una scia di abusi culminati nella morte di Fortuna, cosa ha provato mentre le indagini andavano avanti?
«È innegabile che quando ci si trova di fronte situazioni che coinvolgono le più indifese delle vittime, ovvero i bambini, lavorare diventa molto duro. Inchieste come questa fanno riflettere il magistrato che è anche uomo, padre, fratello, figlio. Il meccanismo dell’immedesimazione è inevitabile. Ciononostante, non ci si può permettere di compromettere l’approccio professionale e, durante le indagini, è assolutamente necessario conservare il distacco che ci consente di essere lucidi».

E così avete scoperto un contesto familiare blindato, finalizzato a proteggere i carnefici e zittire le vittime.
«Prima ancora che l’autopsia sul corpicino della piccola Fortuna mettesse in evidenza gli abusi cronici, e dunque fin dalla primissima fase delle indagini, è emersa una rete di protezione scattata all’interno della famiglia a favore del vicino di casa. In particolare, questi tentativi erano finalizzati a limare i racconti della bimba di undici anni, amica del cuore di Fortuna e ultima a vederla in vita. La mamma e la nonna le suggerivano cosa dire e cosa tacere. Un condizionamento che voleva evitare che la piccola, testimone e a sua volta vittima dello stesso uomo, potesse dire cose importanti rispetto alla fine della sua amichetta. Questi tentativi saltano fuori dalle intercettazioni telefoniche e ambientali dalle quali si evincono le preoccupazioni rispetto all’eventualità che la bimba potesse dire cose compromettenti nei confronti del patrigno, visto che era proprio lei la depositaria degli ultimi momenti di vita di Fortuna. Sin da subito, dunque, siamo entrati in possesso di un consistente quadro probatorio, al quale mancava la chiave di volta, giunta quando la bimba, allontanata dai familiari, ha iniziato a raccontare tutto». 

Come si fa a far parlare i bambini di esperienze così traumatiche?
«Fuori dai condizionamenti e lontani da certi ambienti, i professionisti giusti, sia della casa famiglia che della procura, intavolano un percorso che tende al recupero del minore. Una prassi generale che nel caso specifico ha avuto un risvolto penale e che pertanto ha visto impegnata la procura dei minori accanto a quella di Napoli Nord. È con il supporto degli psicologi e degli educatori che si raggiungono risultati di questo tipo, attraverso percorsi che ora devono andare avanti per il benessere dei minori coinvolti».

Lontani dal Parco Verde, dunque, dove la rete di protezione dei pedofili ha tenuto per mesi prima di venir forata dalle bambine, senza l’aiuto di nessun adulto.
«Non solo un clima omertoso, ma il tentativo costante di depistare le indagini, come si evince dal caso della scarpetta fatta sparire: al momento non ci sono altri indagati, ma le dichiarazioni mendaci venute alla luce sono oggetto di approfondimento. Quello del Parco Verde di Caivano è un quartiere dove il degrado esteriore ha finito per degradare anche le persone, per questo è necessario intervenire su tutto, anche sugli spazi desolatamente abbandonati a se stessi e abbrutiti dall’assenza di cura. Ciò che circonda le persone finisce per avere influenza sul loro modo di rapportarsi agli altri, fino a una quasi totale perdita di umanità. Accanto al clima di complice omertà, c’è complicità».

Sarà un processo facile?
«L’indagine ha esplorato una pluralità di aspetti che il gip ha riconosciuto validi, ma i magistrati sanno che nessun processo è semplice, tantomeno quello che coinvolge minorenni in qualità di vittime e testimoni».

E manca la prova schiacciante, il Dna.
«Ma c’è una sorta di confessione implicita, l’indagato viene intercettato mentre si preoccupa che sul corpo di Fortuna possano essere trovate tracce del suo sudore». 

Si aspetta che qualcuno degli adulti, a questo punto, collabori?
«Non nutro grandi speranze in merito. Se in certi quartieri lo Stato viene considerato un nemico, anche se arriva per tutelare i più indifesi, significa che in troppi hanno inteso ostacolare le indagini per puro spirito omertoso e, in un contesto del genere, è difficile per chi indaga trovare una sponda. Le indagini però non sono chiuse: le dichiarazioni false, così come i palesi tentativi di depistaggi, sono tuttora oggetto di approfondimento».

Lo scenario venuto a galla potrebbe riaprire anche il caso del piccolo Antonio, caduto dallo stesso palazzo dal quale è precipitata Fortuna?
«Non posso parlare di questo, il caso è alla V sezione della procura di Napoli con la quale c’è stato scambio di informazioni sin dal primo istante».
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