«Così traduco la Bibbia in lingua napoletana»

«Così traduco la Bibbia in lingua napoletana»
di Corrado Castiglione
Domenica 10 Settembre 2017, 20:16
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Comporre in lingua napoletana, che siano opere originali oppure traduzioni di testi sacri e di teologia: l'illuminazione arrivò dall'alto un giorno di sei anni fa. E a don Antonio, vice-parroco all'Arenella, non parve affatto un'idea balsana o di stampo secessionista in questa terra che ha sempre saputo vivere la propria fede in lingua madre, come attestano molteplici testimonianze che accostano religiosità e lingua popolare, dal culto delle anime d' o priatorio a quello di San Gennaro e, nei tempi più recenti, da A Madonna d' e mandarine la delicata poesia scritta dal primo capocronista del Mattino Ferdinando Russo al saluto A Madonna t'accumpagna con il quale il cardinale Crescenzio Sepe avviò il proprio ministero pastorale in città undici anni fa.

L'illuminazione arrivò proprio dall'arcivescovo che conosceva la passione di don Antonio per la filosofia e le Sacre scritture maturata con la laurea alla Federico II, il baccellierato alla Facoltà teologica e gli anni di insegnamento nei licei, e gli lanciò il suggerimento di tradurre in napoletano la Bibbia. Così accadde che don Antonio Luiso appena ordinato sacerdote alla non più tenera età di 55 anni («ho voluto pensarci bene» dice ora con ironia) si fermò. Accantonò l'idea di continuare a scrivere saggi, ovvero la strada che aveva intrapreso con alcuni lavori pubblicati da D'Auria e da Guida, e si mise di buzzo buono a tradurre il Vangelo di Marco direttamente dal testo in latino. L'opera uscì nel 2013 per i tipi di Controcorrente, titolo: «'o Vangelo cuntato a Santu Marco vutato a llengua nosta». E da allora non si è più fermato. Due anni dopo, ha sfornato per Cuzzolin «o libbro e ll'Apocalisse e San Giuvanne Apustulo, vutato a llengua nosta». L'ultimo lavoro si intitola «Io e (d)io» ed è una vera e propria disputa teologica che il sacerdote e professore ingaggia col teologo Vito Mancuso».
«Ma po', agge pacienza, mastu-Vvì, famme capì: e de san Paulo che nne vulimmo fà a cchistu punto? O vulessemo scancellà da dint' a Bbibbia?»: è più o meno questo il tenore con il quale don Antonio prova a confutare, con ironia, le tesi di mastu-Vvì, alias Vito Mancuso, che con il libro «Io e Dio» aveva provato a delineare il quadro di una religione per don Antonio «più vicina all'uomo, forse troppo terrena». Spiega il sacerdote: «Mi sono divertito ad utilizzare il napoletano per prendere garbatamente in giro Mancuso che io chiamo mastu come qualche tempo fa ci si sarebbe rivolti ad un altro grande teologo come Hans Kung con il termine meister».

Ma perché scrivere in lingua napoletana? Don Antonio confida: «Intendiamoci: non sono un secessionista. Sono cresciuto in una casa nella quale valeva l'esortazione: Non parlare in dialetto. Naturalmente leggevo e apprezzavo i grandi autori, da Salvatore Di Giacomo a Eduardo Di Filippo, ma niente di più. Anzi, aggiungerò: inizialmente ero prevenuto perché convinto che la lingua napoletana avesse il punto debole di non saper rendere alcuni concetti astratti. Ma poi pian piano ho sperimentato che grazie ad una miriade di espressioni e di immagini il napoletano, sia in campo religioso che filosofico, può davvero avere una marcia in più. Da tempo riscontro che alcuni testi delle Sacre scritture possono essere resi molto bene in napoletano. La stessa cosa mi accade a scuola, spiegando la filosofia ai ragazzi».

Quella di don Antonio è una vocazione adulta maturata dopo anni di militanza politica tra estrema sinistra e sinistra, prima in Avanguardia operaia, poi in Democrazia proletaria, infine nel Pci.

Intanto ha cominciato a insegnare filosofia nei licei. Solo sei anni fa poi l'ordinazione sacerdotale, che lo ha portato ad essere nominato vice-parroco nella chiesa di San Giovanni dei Fiorentini dove ha guidato un gruppo riunito intorno alla celebrazione della messa tridentina: «Poi ho preferito troncare quella esperienza, perché mi ero accorto che c'era una deriva incompatibile con il mio essere sacerdote diocesano».

La passione per il latino, cominciata da studente al liceo Genovesi, però don Antonio non l'ha mai abbandonata e oggi - dopo avere tradotto il Vangelo di San Marco e l'Apocalisse - spiega: «Le mie traduzioni sono figlie della Vulgata. Traduco direttamente dal latino, d'altronde non avrebbe avuto senso una doppia traduzione». Così nell'episodio del ritrovamento di Gesù al tempio «Ecco, tua madre e i tuoi fratelli ti cercano» («Ecce mater tua et fratres tui et sorores tuae foris quaerunt te») diventa «O bbì ca mammeta, e frate e e sore toie stanno Ila fora e vanno cercanno a te?»; nell'episodio di Gesù e l'emorroissa «Chi toccò le mie vesti» («Qui tetigit vestimenta mea?») si trasforma in «Chi m'ha maniato a vesta mia?»; così il Gesù della trasfigurazione «transfiguratus est» si trasforma in un plastico «se smatamurfiaje» che il napoletano prende in prestito dal greco metamorfosis; fino alla morte sulla croce, dove «expiravit» viene reso con «cacciaie fora o spireto».

Prossimi progetti? Per don Antonio non c'è che l'imbarazzo della scelta: «Nel cassetto sono già pronte le traduzioni sempre dal latino del De contemptu mundi di papa Innocenzo III e il Cur Deus Homo di Sant'Anselmo d'Aosta».