Da Caravaggio a Dalì
la pinacoteca dei boss

Da Caravaggio a Dalì la pinacoteca dei boss
di ​Isaia Sales
Sabato 1 Ottobre 2016, 10:22 - Ultimo agg. 11:13
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Ci sono mafiosi che dipingono e mafiosi che collezionano opere d’arte, mafiosi che si dedicano al commercio di quadri trafugati e altri che vendono tele contraffatte. Il mondo dell’arte non è escluso dai circuiti e dagli interessi malavitosi, anche se non bisogna cadere nell’errore di pensare che i furti di quadri siano una esclusiva specializzazione della criminalità mafiosa. È questo un mercato amplissimo, con collezionisti ricchissimi che ritengono il piacere di godersi un’opera d’arte non sottoposto a nessun vincolo morale. Anche se è accertato che il furto della Natività del Caravaggio nel 1969 a Palermo sia riconducibile a Cosa Nostra, secondo la testimonianza del collaboratore di giustizia Francesco Marino Mannoia che vi prese parte.

Secondo un altro collaboratore, Totò Cancemi, il quadro veniva esposto durante le riunioni della cupola mafiosa, ma è difficile immaginare un’estasi artistica dei vertici della mafia siciliana mentre decidevano le modalità di spietati assassinii. La tela sarebbe stata poi seppellita nelle campagne di Palermo, insieme a cinque chili di cocaina e ad alcuni milioni di dollari, dal narcotrafficante Gerlando Alberti. Ma nel luogo indicato dal pentito Vincenzo La Piana, nipote del boss, non c’era più traccia della cassa contenente l’opera. Secondo Giovanni Brusca il furto della Natività fu, invece, opera dei Corleonesi, e usata successivamente come merce di scambio nella trattativa per l’alleggerimento del carcere duro previsto dal 41 bis. Secondo un’altra versione, a tenere il capolavoro in casa era il boss Gaetano Badalamenti, colui che fece uccidere Peppino Impastato, mentre per Spatuzza la tela fu abbandonata in una stalla in attesa di venderla a qualche ricco collezionista, e rovinata da maiali e topi. 

Nel libro “The Caravaggio Conspiracy” (1984) il giornalista inglese Peter Watson racconta la sua ricerca del quadro perduto. Sembra che un mercante d’arte gli avesse proposto l’acquisto del capolavoro, ma l’incontro decisivo fu fissato per il 23 novembre del 1980, e il terremoto dell’Irpinia fece fallire l’operazione. 
La scomparsa di quel capolavoro ispirò indubbiamente la trama di un gioiellino letterario di Leonardo Sciascia qual è Una storia semplice, che ruota appunto attorno al furto di un’opera d’arte nascosta nella casa disabitata di un diplomatico. Quando egli torna dopo anni di assenza, viene ammazzato dal commissario di polizia (che inscena poi un suicidio del diplomatico) a cui aveva telefonato per denunciare che una tela rubata si trovava a casa sua. Cosa significativa è che Sciascia coinvolge nel furto e nell’attività mafiosa la figura di un prete. E Ruggero Cappuccio, come hanno potuto godere i lettori del Mattino, ha dedicato al furto da parte della mafia un pregevole racconto.
Lo stesso Cappuccio nel suo romanzo Fuoco su Napoli aveva messo a capo di un clan camorristico un coltissimo avvocato collezionista di quadri. Ma i capi-camorra e i capi-mafia sono veramente appassionati d’arte? Alcuni indubbiamente lo sono stati, come i Nuvoletta o i Galasso, altri si sono limitati a dipingere (come Francesco Schiavone, detto Sandokan, Luciano Liggio, Gaspare Mutolo o il capo della mafia foggiana, Giosuè Ricci). 
Ma mentre il padre dipingeva, il figlio di Sandokan Nicola Schiavone collezionava decine di quadri di importanti artisti contemporanei. Simone Di Meo nel libro L’impero della camorra racconta di importanti tele di scuola napoletana esposte sulle pareti della villa dei Nuvoletta a Marano. E quando nel 1991 furono sequestrati i beni di Pasquale Galasso, nella sua villa di Poggiomarino furono prelevati 150 quadri di pittori del Seicento e del Settecento napoletano (oltre a più di duecento pezzi d’antiquariato) e anche una Madonna del ‘400 francese, rubata anni prima ad Imperia ai fratelli Sada, proprietari dell’azienda Simmenthal. Furono, inoltre, sequestrati due leoni scolpiti in marmo di Carrara, sottratti a un’edicola funeraria nel cimitero di Mercato San Severino e il trono originale su cui sedeva il re borbonico Francesco II, detto “Francischiello”. 

È paradossale osservare, però, che anche i mafiosi collezionisti incappano nei falsi. È successo al re dei video giochi calabrese in rapporti con la ‘ndrangheta, Gioacchino Campolo, che oltre ad avere nella sua collezione opere di Mattia Preti, Picasso, Dalì, Guttuso, Ligabue e Sironi, possedeva almeno 19 falsi, alcuni copiati anche grossolanamente. Un bel coraggio a vendere falsi ad un mafioso!
Anche Massimo Carminati, il protagonista dell’inchiesta Mafia capitale, collezionava quadri, tra cui opere di Picasso, Haring, Guttuso, De Chirico, Shifano, per un valore di almeno un milione e mezzo di euro. E nel 2010 è stato trovato un caveau con più di trecento dipinti di elevato valore (De Chirico, Dalì, Guttuso, Morandi) di proprietà del boss italo-canadese Beniamino Zappia, referente in Italia della famiglia mafiosa dei Bonanno di New York e dei Cutrera-Caruana di Toronto. 

In questa panoramica va ricordato che il Getty Museum di Los Angeles per anni ha comprato pezzi d’arte sul mercato illegale. Sicuramente un preziosissimo cratere attribuito al famoso ceramista greco Assteas, proveniente da Sant’Agata dei Goti e venduto da un tombarolo al prezzo di un milione di lire; la Venere di Morgantina, rubata in Sicilia ed acquistata dal museo nel 1988, così come importanti affreschi provenienti da Pompei.
Nel circuito dei furti di opere d’arte il più richiesto è indubbiamente Van Gogh, visti i numerosi furti avvenuti nel tempo nei musei che ospitano sue tele.

Ma che un clan della camorra napoletana fosse in possesso di due capolavori del genio olandese, dimostra il carattere internazionale delle sue relazioni e le cospicue ricchezze accumulate con il traffico di droga. È poco credibile, però, che i membri del clan Amato-Pagano le avessero prese per godersele a casa loro come facevano i Nuvoletta o i Galasso.

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