Vulcano Fo, Pulcinella adottivo tra politica e teatro

di Pietro Treccagnoli
Venerdì 14 Ottobre 2016, 09:10 - Ultimo agg. 13:53
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«Città nobilissima». E si potrebbe persino correggerla in «nobelissima». Così Dario Fo, con due asciutte parole riassunse, qualche anno fa, l'amore per Napoli, capitale e palcoscenico, dove la sua voce potente e irriverente di giullare, di erede della Commedia dell'Arte, che qui abitò fino a trasformasi in farsa e opera buffa. Il Nobel morto ieri, con Napoli ci ha fatto l'amore, ma qui ha trovato anche il dolore. Ne ha conosciuto entrambe le facce, vivendola e interiorizzandola come un napoletano autentico. Quando fu invitato alla seconda edizione del Napoli Teatro Festival Italia, in qualità di autore di un'«Apocalisse rimandata» (titolo che si adatta alla città come un abito da sposa o come un sudario) che altri mettevano in scena, fu un fiume in piena di sentimento, perché la sua lunga passione all'ombra del Vesuvio proveniva da lontano, sgorgava dalla polla delle meraviglie di Eduardo De Filippo. L'artefice magico ne capì immediatamente le potenzialità, nei primi anni Cinquanta, quando l'attore lombardo aveva appena 26 anni. Lo comprese e alla sua compagnia impose di chiamarlo maestro.

Potenza della scena, potenza di Napoli. Ecco, nel 2009, Fo, con le sue due parole antiche e moderne, riallacciandosi a più di mezzo secolo prima, dava a Napoli quel che è di Napoli perché il teatro in questa metropoli della messinscena è spazio senza fine e tempo senza limite, circolare. Il teatro come salvezza, quindi, lezione e ambizione che, nelle parole che l'attore e commediografo affidò al «Mattino» in quell'occasione, si trasformarono iperbolicamente in palingenesi, in aspirazione alla palingenesi: il teatro, scrisse, apre le porte di Napoli al mondo «e al mondo fa conoscere non la sua Gomorra e la sua munnezza, ma la cultura, l'antica, nobilissima arte del palcoscenico in cui è maestra da secoli. Tutte le città, a Nord e a Sud, hanno un terribile bisogno di cultura. Napoli ancora di più». Ma forse il legame più solido proveniva dalla maschera di Pulcinella che lui amò indossare, che dipinse e che approfondì grazie alla collaborazione con il compianto Franco Carmelo Greco, che fino agli anni Novanta, ha insegnato Storia del teatro alla Federico II. Pulcinella, Eduardo, ma pure le lotte operaie con le quali l'attore dimostrava di saper stare sul palco pure per un comizio (prima ancora di sposare le battaglie del Movimento 5 Stelle). Misteri i suoi che oscillavano tra il buffo e il feroce, tra la commedia e la tragedia, come è stata l'esperienza più traumatica che Fo ha vissuto a Napoli: la morte del consuocero, padre della compagna del figlio Jacopo, Emilio Albanese, durante una rapina, nel maggio del 2005.

Accadde a via Costantinopoli, nell'androne del suo palazzo, nel modo efferato che la parte selvaggia e criminale della città sa praticare. Nobile e crudele. Ma l'amore si nutre anche di questo e della voglia di riscatto che risuonò nelle sue parole e in quelle dei familiari della vittima. Da quella scia di sangue scaturì un'associazione, L'altra Napoli, attiva alla Sanità. Altri maggio verranno per lui e per le sue stagioni napoletane. Stagioni di battaglie di altro tipo, nelle quali il rosso del sangue fu sostituito dal rosso delle bandiere della sua grande passione politica, sempre in direzione ostinata e contraria, ma costantemente a favore e al fianco dei lavoratori, insieme con sua moglie Franca Rame (scomparsa tre anni fa). Il primo maggio del 2007 marciò a Pomigliano d'Arco, assieme ai cassintegrati dell'Avio, per poi riempire il Palapartenope di Fuorigrotta per uno spettacolo di solidarietà, allestito proprio per gli operai dell'azienda in crisi. Un ritorno ai tendoni che l'avevano visto trionfare in tutt'Italia, nei plumbei e ruggenti anni Settanta, e quindi anche a Napoli proprio con il suo «Mistero buffo» che lo sdoganò, qualche anno, dopo anche in casa Rai da dove era stato cacciato tredici anni prima per le battute politiche poco gradite alla Democrazia cristiana. Giorni formidabili per una generazione sospesa oggi tra l'antagonismo e la nostalgia, ma allora, nella Napoli che aveva per la prima volta un sindaco comunista, Maurizio Valenzi, era orientata a un cambiamento del quale la scena teatrale era rappresentazione e traino. Era il febbrile 1977, figlio metropolitano del Sessantotto, con il quale l'attore aveva filtrato.

E il Palazzetto dello Sport fu riempito da una folla in cui si stava così pigiati che non si trovava nemmeno lo spazio per ridere del suo grammelot che sbeffeggiava i potenti del presente e del passato.

Fuori persisteva uno schieramento di circa 200 poliziotti Per evitare il peggio. Spettacolo e politica come, poi, è stato per lunghi decenni come il marchio fabbrica di un attore, ancora lontano dagli allori scandinavi. Di allestimenti, molto più appaganti, rappacificati e che a modo loro sfioravano la spiritualità, negli ultimi anni Fo a Napoli ne ha portati e realizzati diversi, quando era ormai poeta laureato, guitto «nobelizzato». Negli ultimi è calato a Napoli per rappresentare i suoi omaggi a Raffaello e a san Francesco. Proprio al Poverello di Assisi fu dedicata, nel 2014, l'ultima performance, quando all'Auditorium Rai di via Marconi registrò con Mika «Francesco, lu santo Jullare», trasmessa da RaiUno. E quella originale sintonia con una popstar a modo suo irriverente, ma più integrata che apocalittica, mostrò che le vie del teatro sono infinte e quelle di Fo passavano inevitabilmente per la capitale del teatro, anche se gli appuntamenti con la vita non furono sempre brillanti come quelli della scena che ancor giovane lo incoronò maestro per mano di un più grande maestro.

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