Napoli. Dopo la lunga notte degli arresti, i pusher alle 8 sono già al lavoro

Napoli. Dopo la lunga notte degli arresti, i pusher alle 8 sono già al lavoro
di Daniela De Crescenzo
Martedì 9 Febbraio 2016, 08:59 - Ultimo agg. 11:02
5 Minuti di Lettura

I carabinieri se ne sono andati alle sei e mezzo, alle otto le piazze di spaccio sono tutte aperte. Al netto dei pianti e delle proteste delle donne, che però sono andate in scena davanti al comando provinciale dei carabinieri di Caserta, il giorno del blitz al Parco Verde è un giorno come gli altri. Gli spacciatori come sempre sono in postazione intorno all'area per i giochi che doveva essere aperta trenta anni fa; sostano nei giardini che circondano la casa di Fortuna Loffredo, la bambina volata giù dall'ottavo piano dopo essere stata abusata; fumano stracchi nei dintorni dei campetti di calcio voluti da Bruno Mazza, ex capopiazza convertito al sociale. Intorno a loro, come sempre, gira l'economia del rione: a una certa distanza si scorgono i pali incaricati di lanciare l'allarme; nelle palazzine dei dintorni abitano le famiglie che guadagnano dando la «voce» se arrivano «i guardi», polizia o carabinieri non fa differenza; lungo i viali bucati sfrecciano i guaglioni incaricati di consegnare la roba; sui marciapiede arrancano le donne che cucinano per i «faticatori»della droga: ogni giorno sfornano parmigiane di melenzane, frittate di maccheroni, pizze e peperoni «'mbuttunati» per i guaglioni che aspettano i clienti.

Un mestiere come un altro e certamente non il peggiore. «Al Parco Verde la disoccupazione supera l'ottanta per cento - spiega don Maurizio Patriciello che del rione è parroco da più di venti anni - Se le famiglie tirano avanti è perché spesso si collegano all'unica impresa che da queste parti funziona: quella della droga. Molti non si rendono nemmeno conto del danno che fanno, quando c'è da mettere un piatto a tavola pochi hanno voglia di riflettere o di approfondire».E così tra chi porta il pacco con la coca, chi avverte quando arriva la polizia e chi fa il giro del Parco vigilando in moto, il rione diventa inespugnabile. «Le forze dell'ordine, pur conoscendo nome e cognome degli spacciatori non riescono a pigliarli: quando arrivano già sono stati ampiamente avvertiti e si sono liberati delle dosi», racconta il parroco.Ma anche loro, gli spacciatori, in fondo in fondo, se considerati nel quadro più ampio dei traffici di stupefacenti, sono poco più che pezzenti. Non hanno i capitali necessari per contrattare grossi quantitavi di eroina o cocaina e quindi comprano tre o quattro pacchi da un chilo alla volta e poi la rivendono al dettaglio o la cedono ad altre organizzazioni.

Di questo sono accusati Umberto Diaferia, Salvatore Natale e Andrea Silvestro arrestati nel blitz di ieri mattina. Un chilo di cocaina costa a chi tiene la piazza costa normalmente intorno ai 45 mila euro, che moltiplicato per quattro fa comunque quasi duecentomila euro. Una bella cifra. E allora gli spacciatori made in Caivano si rivolgono ai big di Melito, che sono in società con i trafficanti Amato e Imperiale, quelli finiti dall'ultima inchiesta della Dda. Comprano sulla parola, ma con una maggiorazione: un chilo per loro non costa 45 mila euro ma un po' più di cinquantamila. Un tempo c'era la pizza a otto: oggi si compra a rate pure la partita di droga. Ma il guadagno è assicurato visto che da un grammo di polvere bianca si ricavano quattro o cinque dosi che vendute a tredici euro l'una rendono almeno 65 mila euro. Il problema è che spesso chi vende la droga la consuma anche e spesso i guadagni finiscono in polvere. Racconta Bruno Mazza che a diciotto anni era il braccio destro del boss e governava per suo conto tutte le piazze di spaccio del Parco Verde e adesso, scontata la pena, fa il volontario: «con la droga ho guadagnato un sacco di soldi, ma li ho spesi tutti. Il capo si faceva e noi gregari tiravamo con lui».E gli altri, tutti gli altri? Più o meno un decimo dei seimila abitanti del Parco tirano avanti grazie all'eroina, alla cocaina e all'hashish. Qualcuno si dedica a professioni altrettanto incoffesabili, dal furto alla rapina; qualcun altro lavora; tutti gli altri muoiono di fame e trascinano le giornate in quel deserto lastricato di cemento che chiamano Parco Verde. Tre scuole, una parrocchia, i giardini privi di erba dove brucano le caprette, il parco giochi mai inaugurato, una struttura abbandonata che Bruno Mazza sogna di trasformare in un laboratorio per insegnare l'arte bianca, quella di chi fa il pane, i viali pieni di siringhe, e poco altro: questo è il rione. Chi inventò la ricostruzione post terremoto volle destinare questo pugno di case a chi aveva perso il tetto. O magari ce l'aveva, ma immaginava di abbandonare il vicolo per un nuovo paradiso. Un errore fatale che pagheranno i figli e i figli dei figli condannati al ghetto per sempre.Eppure, a sentire don Patriciello, una via d'uscita ci sarebbe: «Alfano vuole mandare i soldati, ma a noi serve il lavoro. Per la sicurezza sarebbero utili telecamere e intelligence, per garantire la vita civile serve che la gente possa guadagnare onestamente. Solo questo: nient'altro». E questa volta l'ex detenuto è d'accordo con il sacerdote.

Sostiene Bruno Mazza: «Se per tenere i ragazzi lontani dal carcere si investissero un po' dei soldi che si spendono per tenere i delinquenti in galera i problemi si potrebbero risolvere.

Al parco Verde si comincia a spacciare a 14 anni: lo sanno tutti. Nessuno interviene». Ma quello che inizia con «si potrebbe» è solo un periodo ipotetico. La realtà è che da anni manca perfino l'autorizzazione per un corso di formazione professionale. E quindi: avanti con lo spaccio.