Il magistrato Di Pietro, da oggi in pensione: «Tortora? Non una svista l’arresto era inevitabile»

Il magistrato Di Pietro, da oggi in pensione: «Tortora? Non una svista l’arresto era inevitabile»
di Gigi Di Fiore
Mercoledì 30 Dicembre 2015, 09:19 - Ultimo agg. 15:11
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Da oggi è in pensione, dopo 48 anni di magistratura. C’è la storia giudiziaria, e non solo, dell’Italia nel racconto professionale di Lucio Di Pietro che, dopo tanti anni di rifiuto di interviste, accetta di tracciare «senza polemiche con nessuno, rispettando tutti come ho sempre fatto nella mia carriera».
Dottore Di Pietro, quando arrivò alla Procura di Napoli?
«Nel 1973, dopo 5 anni di iniziale attività alla Procura di Ferrara. Per scelta, ho lavorato sempre nel settore requirente, negli uffici delle Procure. Ero molto giovane, quando arrivai al terzo piano di Castelcapuano dove allora si trovavano gli uffici della Procura napoletana».
Erano gli anni del terrorismo?
«Sì, una bufera, che travolse tante vite. Gli accusati avevano pochi anni più di me, ma bisognava evitare di farsi travolgere dalle emozioni».
Fu catapultato subito in quelle istruttorie?
«Fui designato a seguire tutti i processi dei Nap, su episodi avvenuti in tutt’Italia. Seguii le indagini e il processo. Prima avevo lavorato ad istruttorie su varie vicende, in un ufficio di una trentina di sostituti guidato dal procuratore De Sanctis, privo di sezioni e specializzazioni come si usava allora. Anni in cui si applicava il codice precedente al 1989, con indagini sommarie e poi formali affidate al giudice istruttore».
Che ricordi ha di quell’esperienza?
«Allora, non c’erano regole sulle scorte da assegnare. Un giorno, il procuratore capo mi disse che, in seguito ad informazioni da tenere segrete, avrei dovuto avere una sorveglianza fissa dei carabinieri sotto casa. Furono mesi di tensione, anche per la mia famiglia. Nella sua relazione, il procuratore capo parlò di indagini dai gravi rischi».
Era il 1976?
«Sì, tra il 1976 e il 1977 si tenne il processo dove fui impegnato in tutte le udienze a sostenere l’accusa, con oltre una trentina di imputati. In quegli anni, diversi colleghi chiesero di lasciare le Procure. Giudice istruttore era Felice Di Persia, collega con cui già allora avevo sintonia professionale».
Dal terrorismo alla camorra?
«Sì, era il periodo della feroce guerra da oltre 200 morti ammazzati all’anno, tra la camorra cutoliana e i gruppi della Nuova famiglia. Cifre da allarme. La notte del terremoto, il 23 novembre 1980, esplosero violenze di inaudita ferocia nel carcere di Poggioreale».
Cosa accadde?
«Fui chiamato, come magistrato delegato ad occuparmi delle violenze e omicidi a Poggioreale dove arrivai dopo due ore, per il caos che c’era in città dopo le scosse di terremoto. Vidi scene tremende, sangue dappertutto, lenzuola e cadaveri scempiati. All’indagine sulla Nco il procuratore delegò me e il collega Di Persia, che era passato in Procura».
Ricorda qualche episodio sulla guerra di camorra di quegli anni?
«Dopo l’omicidio in carcere del boss della ’ndrangheta Tripodo, nemico dei Di Stefano alleati di Cutolo, trovai il capo della Nco in vestaglia a righe, compassato e con gli occhialini. Mi disse, serio, dottore Di Pietro, dove siamo arrivati, non si capisce più niente. Un aneddoto per descrivere il contesto, il clima e i personaggi con cui si aveva a che fare» Quasi subito l’impatto con i primi pentiti?
«Già, il primo fu Pasquale Barra, feroce killer cutoliano. Mise a verbale delle dichiarazioni di disponibilità a parlare raccolte nel carcere di Foggia dove era detenuto, trasmesse a noi dai colleghi pugliesi. Barra fu trasferito a Napoli, dopo aver evitato tre attentati dei suoi stessi compagni della Nco. La sua testa era stata chiesta dopo l’uccisione di Turatello, di cui era stato l’autore».
Barra fu trasferito a Poggioreale?
«No, fu il primo problema da affrontare. Nel carcere napoletano, sarebbe stato a rischio. Chiedemmo indicazioni al ministero, le ipotesi di carceri alternative erano impraticabili. Il Dap ci propose la caserma dei carabinieri di piazza Carità a Napoli. Indicazione messa per iscritto e conservo la lettera ufficiale del ministero».
La caserma poi definita l’albergo dei pentiti?
«Una falsa definizione giornalistica. Al terzo piano, furono create delle celle con lavori edili, perché i pentiti aumentavano. Mangiavano il vitto dei carabinieri. Non sapevamo se applicare il regolamento carcerario, proibimmo i colloqui con i familiari. Qualsiasi problema logistico dovevamo risolverlo noi perché non esistevano ancora le leggi sui collaboratori di giustizia. E sa una cosa?»
Cosa?
«Poco dopo la nostra istruttoria, i colleghi palermitani cominciarono a lavorare al maxi-processo. Ci chiedevano consigli e suggerimenti sulla gestione dei collaboratori in indagini così ampie. Non c’erano pc, lavoravamo a fogli, utilizzammo i pennarelli colorati per evidenziare e distinguere richiami di pagine e nomi nei faldoni. Arrivammo al maxi-blitz del giugno 1983».
Il blitz dell’arresto di Enzo Tortora?
«Sì. Con gli elementi a nostra disposizione, non potevamo fare altrimenti. L’arresto era obbligatorio, non esistevano i domiciliari. La famosa telefonata al numero dell’agendina di Puca, come è scritto negli atti, fu fatta subito e rispose una sartoria. C’erano, in quel momento, altri elementi d’accusa. Vanno sempre rispettati sentenze e processi. Da pm, ho solo fatto il mio lavoro in onestà e buona fede».
Come mai, a differenza dei suoi colleghi, non ha mai voluto parlare in quegli anni di polemiche?
«È nel mio costume. Assistevo a strumentalizzazioni, spesso in cattiva fede, e disinformazione giudiziaria. Ho atteso l’assoluzione piena del Csm, che riconobbe l’onestà e la limpidezza professionale del nostro lavoro».
Cosa pensa di quell’istruttoria?
«Fu importante nella lotta alla camorra, in anni di tremenda emergenza criminale. Ottenemmo 434 condanne definitive e molti degli assolti furono poi uccisi. La Nco fu azzerata. Dissero che avevamo coinvolto Tortora per occultare il caso Cirillo, senza far caso alle date non coincidenti delle due vicende».
È stato il primo coordinatore della Dda napoletana?
«Sì, nel 1992 ero il magistrato di maggiore esperienza nelle inchieste sulla camorra. L’istruttoria Nco di 9 anni prima era stata il primo vero banco di prova per il neonato articolo 416-bis. Con noi crebbe una generazione di magistrati, oggi ai vertici di uffici, come Roberti, Cafiero, Gay, D’Alterio, Greco».
Da aggiunto alla Procura nazionale antimafia la scoperta dei Casalesi?
«Con il procuratore Vigna coordinavo più uffici a Roma e fui applicato tre giorni alla settimana a Napoli, per seguire l’indagine Spartacus, inizio di tutti i fascicoli sui Casalesi. Il primo colloquio con il pentito Carmine Schiavone lo feci io. Lavorai al fianco di Federico Cafiero de Raho».
Cosa si conosceva dei Casalesi?
«Nulla, una mafia chiusa, senza pentiti. Schiavone si fidava solo di me e Cafiero e, quando doveva essere sentito da altri, voleva ci fossimo anche noi. Poi arrivarono altri pentiti e fu creato un iniziale pool di pm, con Greco, Visconti e Laudati. Svelammo, tra gli altri, l’omicidio di don Peppe Diana e del fratello del giudice Imposimato. Creammo da zero squadre di polizia giudiziaria e cancellieri, che si specializzarono nel lavoro sulla camorra casertana».
Un ricordo sull’ultimo incarico di procuratore generale a Salerno?
«La soluzione del braccio di ferro tra le Procure di Catanzaro e Salerno, sui fascicoli scaturiti dall’indagine Why not di De Magistris. Ci fu un blocco di giurisdizione, da risolvere. Fui convocato dal procuratore generale della Cassazione, ci misi due giorni convocando i capi dei due uffici e trovai il modo di sbloccare i sequestri incrociati tra le Procure. Un primo dissequestro sarebbe stato seguito dal secondo sulla mia parola d’onore». Che bilancio si sente di fare sulla sua carriera? «Innanzitutto, a distanza di anni devo ammettere che le ansie provate negli otto anni di indagini sul terrorismo sono state maggiori di quelle vissute nei 30 anni di lavoro sulle mafie. Ho cercato di lavorare sempre con rispetto nei confronti di tutti e cercando di osservare estremo rigore, affrontando i procedimenti amministrativi dove mi sono difeso sempre e solo nelle sedi istituzionali».
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