Il Ministero promuove e finanzia il docufilm su Gigione

Il Ministero promuove e finanzia il docufilm su Gigione
di Federico Vacalebre
Martedì 29 Dicembre 2015, 09:24 - Ultimo agg. 19 Marzo, 12:05
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«Essere Gigione». Il titolo, situazionista a dir poco, richiama quello di «Essere John Malkovich» («Being John Malkovich»), film del 1999 scritto da Charlie Kaufman e diretto da Spike Jonze, tre nomination ai premi Oscar 2000. E il Mibact gli ha concesso il visto di «interesse culturale». «È un passo irrilevante per l’umanità, ma una conquista significativa per chi ha deciso di supportarmi in questa folle avventura», annuncia su Facebook e non senza (auto)ironia Valerio Vestoso, il regista beneventano, classe 1987, che ha deciso di raccontare con un docufilm il re delle serate di piazza, il signore della «Campagnola» e delle canzoni a doppio e triplo senso che vanno a braccetto con le preghiere per Padre Pio e Papa Francesco, l’alfiere della rural dance.
 

Essere Gigione - Teaser from Capetown srl on Vimeo.



«Avevo da tempo il pallino di seguire Gigione», racconta Vestoso, che ha lavorato con Ugo Gregoretti e Nello Mascia, «mi affascinava il fatto di utilizzarlo come pretesto per raccontare la provincia. Dopo un po’ di corteggiamenti, lui ha accettato il mio invito. E ha deciso di farsi seguire. Lo sto seguendo da qualche mese e continuerò a farlo per altri sei o sette. Mi incuriosiva capire come si fa a radunare così tanta gente in piazza da trent’anni a questa parte e soprattutto come si fa a suonare live per 170 serate all’anno in un Italia in cui la musica dal vivo latita sempre di più».

Già perché i numeri del fenomeno Gigione sono impressionanti, e duraturi: all’anagrafe Luigi Ciaravola, una balbuzie ben domata, un cappellino a nascondere la calvizia, iniziò a tradurre, si fa per dire, Otis Redding e Madonna in napoletano, poi Maurizio Costanzo lo volle nel suo salotto, incoronandolo imperatore del trash canoro, messaggero della trivial song, re delle sagre. Per i detrattori è il Presley della porchetta e lo Springsteen di Boscoreale, ricordando il paese dov’è nato 68 anni fa. Il suo sound è fintamente naif, pensato apposta per le platee paesane, che lo accolgono come un divo dagli anni Ottanta, quando spopolò con la filastrocca tamarra della «campagnola», quella con tutte «’e cose ’a fora». Incrocio fuori tempo massimo tra gli Squallor e Leone Di Lernia, è uno stakanovista delle feste patronali, accompagnato spesso sul palco dal figlio Jo Donatello e dalla figlia Menayt (in realtà si chiama Filomena, ma fa più chic/trash).

Tra una rima ardita e un lazzo in sintonia ma condito di devozione popolare, la fenomenologia di Gigione è studiata da decenni, senza che nessuno sia riuscito a imitarlo o a venire a capo del suo segreto, anzi del suo culto, che si estende per quasi tutto il Meridione non metropolitano, con forte penetrazione nel Lazio e difficoltà di sfondamento più a Nord. «Lui è consapevole di essere un ottimo imprenditore», spiega Vestoso: «Fa esattamente quello che vuole la gente. È un grande ascoltatore di musica leggera italiana, ma sa che non è quella che piace al suo pubblico, che vuole esattamente quello che lui dà: giri di basso semplici e testi chiaramente molto poco articolati».

Gigione parla di un milione di dischi venduti in trent’anni, «compresa una bella fetta di copie pirata», quasi non si è accorto che ormai i dischi non li compra più nessuno. Ma quel che conta, decisamente più del mezzo milione di visualizzazioni della solita «Campagnola», sono i 700.000 spettatori circa che lo applaudono ogni anni. Non paganti, certo, ma, visto che anno dopo anno la sua agenda di esibizioni non subisce flessioni, vuol dire che gradiscono, eccome. Ora il Mibact dice che un documentario su di lui è «di interesse culturale», il che vuol dire che lo finanzierà anche. Nell’Italietta dei soloni a qualcuno sembrerà uno scandalo. Eppure potrebbe essere utile, oltre che per farsi una bella risata, anche per capire meglio quell’Italia sudista di provincia che noi conosciamo molto poco. Ma Gigione benissimo. 
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