Maradona al San Carlo,
il sublime imperfetto

di Giuseppe Montesano
Lunedì 16 Gennaio 2017, 08:13 - Ultimo agg. 08:40
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Lo abbiamo amato, Diego, e lo abbiamo detestato. Lo detestammo come innamorati traditi quando scoprimmo che era caduto nella trappola della droga. E lo detestammo quando con suo figlio sembrò comportarsi come un piccolo uomo; e lo detestammo perché si trascinava come l’ombra di se stesso. Ma quando finisce un grande amore? Un grande amore non finisce mai davvero, e scende nell’oblio dell’imbalsamazione, per ricordarci che un tempo ci furono festa e gioia. E oggi il Mito torna nella città che letteralmente lo ha fatto nascere o rinascere come l’incarnazione del Calcio, il Calcio disceso in un corpo che a tutto sembrava adatto tranne che a volare sull’erba e a fare con i piedi ciò che nemmeno dieci paia di mani dei più abili umani riuscirebbero a fare: e quel Mito vivente che da decenni era lontano, oggi torna e viene intervistato da tutti, ma sembra non parlare a nessuno.

E che cosa mai dovrebbe dire un Mito vivente? Un Mito esiste e basta, e al solo guardarlo fa affiorare in noi gli attimi di interminabile estasi nei quali sembrava che i sogni si potessero realizzare con un colpo di tacco, ma anche potenziarsi e crescere e trascinare con sé sogni più importanti di un gol o di uno scudetto. Che Diego sia il Calcio forever è la pura realtà, e solo i poveri di spirito potrebbero dubitarne: perché in lui una tecnica che era una sorgente di imprevedibilità si univa a una velocità che non aveva uguali, e ne faceva il primo calciatore moderno. Pelé? Ma Pelé è appartenuto a un tempo molto più lento, un’epoca del calcio lontanissima da noi. Messi? Ma Messi non ha giocato e gioca in una squadra normale come fece Diego, gioca con dieci fuoriclasse illuminati da un genio come Iniesta.

E poi diciamolo, Pelé e Messi saranno sempre la perfezione sontuosa e un po’ algida del Neoclassicismo, e Diego sarà sempre l’imperfetto sublime del Romanticismo: nell’arte del calcio è una differenza essenziale. Ma quando Diego arrivò a Napoli accadde anche qualcosa che non era solo calcio: il ragazzo con le gambotte storte e il corpo sbilenco fu adottato dalla città intera, e divenne una sorta di figlio di elezione. Potrà suonare bizzarro e sconcertante, ma quel mezzo indio di colpo diventò la manifestazione che tutto è possibile in meglio, che un ragazzo povero dei quartieri eterni può arrivare a essere Maradona, che un corpo che chiunque avrebbe dichiarato inadatto può creare arte con un colpo di tacco: e fin dal primo momento, fin dal giocoso palleggio che fece al San Paolo e dalle smorfie non si capiva se allegre o malinconiche che gli deformavano la faccia quando parlava, fin da allora fu evidente a tutti che stava per accadere qualcosa di inaspettato.

E qualcosa di inaspettato accadde: e non fu solo lo scudetto. In quella festa che si scatenò come un risveglio c’era molto altro, e il ragazzo un po’ chiatto ma sublime che trascinava la sua squadra divenne un simbolo, come una fiamma che divampa e promette di trascinare nel fuoco un incendio più grande. In campo il predestinato dagli dèi della sfera di cuoio sudava come e più di tutti; in campo il bambino che creava a ogni istante fantasmagorie non si arrendeva mai; in campo lo sconsiderato che era fragile nella vita era incapace di accettare la sconfitta fino all’ultimo secondo di gioco.

Quel ragazzotto che faceva inginocchiare la superba Inghilterra volando come uno gnomo fatato sull’erba, quel ragazzotto che trasformava una qualsiasi punizione in un rabbrividente e meraviglioso teatro di Shakespeare, quel ragazzotto che sembrava essere sbucato dai Quartieri Spagnoli o dal Pallonetto era come un talismano carico di speranza: nonostante tutto e tutti, nonostante se stesso. Armadi di carne brutali lo prendevano a calci, giganteschi atleti cercavano di stancarlo, orchi cattivi volevano spegnere la fiamma, ma il Pollicino del dribbling e l’Einstein della punizione li beffava, mostrando a tutti che la bellezza intelligente può sconfiggere la forza presuntuosamente ottusa.

Diego ci diceva che tutto è sempre possibile, raccontava in ogni brivido in cui creava calcio che i sogni per essere veri devono realizzarsi, ci spiegava oscuramente che c’era nella città che lo aveva adottato qualcosa che ancora avrebbe potuto incendiare la speranza: e spingere le vite di tutti a giocare fino all’ultima goccia di sudore le partite importanti. Fu per questo che poi lo detestammo, perché nel suo crepuscolo e nel suo trascinare se stesso come un’imitazione dell’artista che era stato, leggevamo la fine di quella speranza sognata che era diventata per attimi e su un campo da gioco la realtà vera: detestare Diego era nient’altro che la forma che prende l’amore quando è deluso e la festa si trasforma in tristezza.

Oggi il Mito in cui si è incarnata la selvatica e sorprendente bellezza senza la quale il calcio è nulla, è tornato nella sua città: e non si può non sognare, almeno per qualche istante, a quando tutto sembrò possibile.
Tutto cosa? Tutto. Se la Città-Mondo che si rispecchia nel suo Mito ricordasse che si gioca sempre fino all’ultimo secondo, e ricordasse che un’arte che sa inventare Favole ma non sa non resistere agli Orchi è inutile, e ricordasse che solo smettendo la guerra di tutti contro tutti si vincono le partite, allora la Città-Mondo potrebbe giocare le sue partite senza timori sciocchi e senza speranze false, fino all’ultimo secondo e con tutte le proprie forze. Lui, il Mito del calcio incarnato, non ci svelerà niente. E cosa dovrebbe svelarci? I Miti servono a ricordare che infiniti sono i modi per riuscire a essere se stessi, per gli uomini singoli e per le multiformi Città-Mondo: per riuscirci non bisogna aspettare rivelazioni, ma giocare con tutte le proprie energie, e senza mai arrendersi.
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