Napoli, l’ultimo viaggio nelle Vele
parte il piano di demolizione

Napoli, l’ultimo viaggio nelle Vele parte il piano di demolizione
di Paolo Barbuto
Giovedì 29 Giugno 2017, 08:36 - Ultimo agg. 08:46
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 Le Vele, viste da lontano, sono esattamente quel che la gente si aspetta: ballatoi mezzi crollati, immondizia e piscine gonfiabili sulle terrazze, topi grassocci e ragazzi disperati gettati per terra. Le Vele, viste da dentro, invece sono un’altra cosa: un crogiolo di facce rudi e volti spauriti, sorrisi di bucato profumato steso ad asciugare e magliettine sporche di terra e fango addosso a bimbi gioiosi. Le Vele tra poco non ci saranno più, verranno abbattute. Ne resterà solo una, per ricordare l’esperimento sociale peggiore del mondo, la sfida architettonica perduta da Napoli.

Il bando per la progettazione dell’abbattimento è stato assegnato la settimana scorsa: solo per capire come demolire quei mostri di cemento saranno investiti seicentomila euro, poi si passera alla fase esecutiva. Doveva succedere entro la fine di giugno, il tempo è slittato in avanti, ma stavolta si farà, le Vele andranno giù. Andare a raccontarle per l’ultima volta è quasi un obbligo, l’ultimo saluto a un parente del quale ti sei sempre vergognato, ma ora che sta per morire merita un atto di compassione. Dovrebbero essere completamente vuoti i palazzoni perché le operazioni di sfratto sono iniziate da più di un anno.

Ma le nuove case a via Gobetti e via Labriola sono state assegnate solo a chi ne aveva diritto. Così un’ultima parte di popolo delle Vele, quelli che non «hanno diritto» si arrangia in mezzo alla devastazione. Le case liberate sono state aggredite da squadre di operai che le hanno rese inservibili: distrutti gli interni, devastati i servizi igienici e gli infissi, per evitare che qualcuno rioccupasse le Vele appena liberate. Così mentre risali le scale sporche ti sembra di essere finito in un luogo di guerra: un appartamento è distrutto, ridotto a poltiglia, da quello vicino arrivano note di neomelodici coperte dalla voce di una massaia che canta, e profumo di pranzo appena preparato. Il contrasto, come ogni cosa qui nelle Vele, è stridente. Il fatto è che non sono più i tempi della piazza di spaccio più grande d’Europa e non c’è nemmeno più l’orrore malavitoso raccontato dalla serie televisiva.

Ora questi palazzi hanno solo l’aspetto di animali in agonia. Il popolo dei disperati che oggi le abita è composto per la maggior parte da rom che hanno invaso le case all’ultimo momento: è come se fosse un gigantesco campo, uguale degrado e identica gestione, solo che si sviluppa verso l’alto. L’«alto» dovrebbe essere irraggiungibile, perché la scalinata che conduce agli ultimi cinque piani ha la pretesa di essere bloccata da qualche telo e un po’ di masserizie accatastate. Invece lassù, in cima alle vele, può arrivarci chiunque, soprattutto i bambini. E lassù ad ogni passo c’è un pericolo: gli ascensori sono disattivati, le porte ai piani divelte mostrano lo spaventoso vuoto che c’è sotto; le balaustre sono state portate via e i ballatoi sono passerelle in bilico sul precipizio; le vetrate sono state distrutte a colpi di pistolettate e non esiste separazione tra i pavimenti mezzi crollati e il volo dal quattordicesimo piano.


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