La crisi del lavoro non è
​colpa dell'innovazione

di Alessandro Barbano
Mercoledì 12 Ottobre 2016, 08:00 - Ultimo agg. 08:31
8 Minuti di Lettura
In un recente convegno organizzato a Roma dal Messaggero e dall’Abi, Jean Paul Fitoussi ha segnalato con una battuta la sottovalutazione che economisti e intellettuali fanno di un fenomeno di grande impatto sociale: l’innovazione tecnologica. Abituati, come siamo, a prendercela con la globalizzazione, attribuendole molti dei mali del nostro tempo, trascuriamo, secondo il professore dell’Istituto di studi politici di Parigi, il ruolo che l’innovazione ha in quanto causa del principale fattore di crisi delle società contemporanee: la riduzione del lavoro. Riprendendo il tema, venerdì su queste colonne, Oscar Giannino ha sostenuto che l’innovazione dividerà il mondo tra i pochi dotati delle necessarie competenze per padroneggiare la crescente tecnologia e i più che ne resteranno vittime, spinti verso i gradini censuari e sociali più bassi in un’economia di servizi despecializzati. Ma se pure alla fine risulterà vincente solo chi avrà accettato di ridefinire in forma permanente la sua cultura e il suo habitat, la sfida dell’innovazione merita, secondo Giannino, di essere giocata fino in fondo, poiché da essa può derivare, oltre alla difficile transizione di questi anni, una nuova stagione di salute del capitalismo e, quindi, di benessere collettivo. Con meno ottimismo liberale di Giannino diversi pensatori come Zygmunt Bauman hanno guardato con preoccupazione ai rischi di un’innovazione la cui fascinazione proietta nella cultura un modello di società liquida, cui non sono estranei fattori di alienazione dell’uomo.

Che la prospettiva sia quella del bicchiere mezzo pieno o piuttosto mezzo vuoto, resta il fatto che l’innovazione ha un carattere bifronte. La sua dualità si coglie in particolare in rapporto con il lavoro: poiché essa dilata le possibilità del lavoro mentre ne comprime la sua realtà oggettiva. Comprendere perciò come essa agisca nella modernità diventa sempre più necessario. Nel corso di tutta l’epoca industriale l’innovazione ha avuto l’effetto di avvicinare progressivamente le coordinate spazio-temporali della realtà, dando all’uomo la sensazione che il mondo fosse sempre più piccolo e sempre più velocemente percorribile. Nell’era internettiana, invece, l’innovazione ha costruito una realtà altra da quella fisica, nella quale le coordinate spazio-temporali sono assenti. Nel senso che lo spazio della rete è illimitato e il tempo è fermo sulla soglia della simultaneità: tutto ciò che accade è immediatamente conoscibile. 

Se la realtà oggettiva del mondo è stata nei millenni organizzata dalla civiltà mettendo a valore le azioni umane in base a livelli di gerarchia funzionale, diversi secondo le epoche storiche, e vieppiù meno verticali con l’avanzare delle democrazie, la realtà internettiana è invece totalmente orizzontale. Le azioni umane che vi si compiono, seppure più numerose e articolate grazie alle possibilità crescenti delle nuove tecnologie, non sempre sono messe a valore né tantomeno valutate rispetto alle conseguenze che esse producono per l’umanità.
Nella realtà virtuale faticano ad affermarsi tanto le ragioni del mercato, quanto quelle dell’etica. Con riferimento al primo, la dimensione plurale, che è l’essenza stessa del mercato, rischia di essere assorbita e annullata da un monopolio assoluto: nel mondo internettiano ci sono sempre più disoccupati, ma anche sempre più uomini che sviluppano nella rete movimenti e azioni definibili di volta in volta con i nomi di un nuovo lessico universale (post, tweet, hashtag, ecc.). Queste azioni e questi movimenti impegnano gli individui come farebbe un lavoro, ma fondano relazioni che si fa fatica a definire lavoro. Non solo perché non concorrono a fondare una dignità personale né un’identità sociale, ma poiché è divenuta incommensurabile la sperequazione tra il profitto individuale, quasi sempre irrilevante, che generano, e il profitto verticale e monopolistico di cui queste stesse azioni sono presupposto. Tra questi due estremi, l’individuo, operatore ma non più lavoratore, e il monopolio, non ci sono intermediazioni, né economiche, né istituzionali, né statuali, capaci di sviluppare valore significativo rispetto al volume delle relazioni prodotte.
Il mercato internettiano è sempre più disintermediato, senonché il paradosso di tale disintermediazione è che in essa il massimo di orizzontalità coincide con il massimo di verticalità. Di fronte alla superpotenza sovranazionale di Facebook l’individuo è solo, e nessuna magistratura e nessuna statualità sono parse fino a questo punto capaci di difenderlo. La sua soggezione al potere è totalitaria, poiché non risparmia la stessa identità individuale: ne sa qualcosa la ragazza suicida a Mugnano che invano aveva tentato di riappropriarsi delle sue privatissime immagini finite sulla rete. Su questa zona franca dove uno solo, il più forte, fa incetta del valore inestimabile e, fino a ieri indisponibile, dell’identità, la Waterloo del mercato coincide con quella dell’etica. Ed è in questo crocevia della storia che l’innovazione intercetta la globalizzazione, intesa sia nella sua neutralità qualitativa e, se volete, nel suo relativismo morale, sia nella sua frattura identitaria e comunitaria, prodotta dalla progressiva scomparsa di corpi intermedi e, parallelamente, dei centri individuali e sociali di responsabilità. La disintermediazione in atto in molti processi, che trova nella rete un’accelerazione senza precedenti, coincide così con una diffusa irresponsabilità.
Senonché, l’errore che si fa quando si giudica questo esito della modernità è quello di considerarlo come un destino, cioè come un processo ineluttabile, ignorando che esso è piuttosto la conseguenza del modo in cui l’innovazione è stata fin qui intesa. E qui entra in gioco il rapporto, assai poco studiato, tra l’innovazione e ciò che siamo soliti definire cultura, intesa in questo ambito come sintesi del pensiero politico ma anche, a ricasco, degli atteggiamenti collettivi diffusi che definiscono la vita civile di una comunità. Se l’innovazione ha avuto gioco così facile nel ridefinire a suo piacimento le categorie sociali della modernità, ciò è dipeso dal fatto che le grandi culture politiche, da destra e da sinistra, e cioè tanto il liberalismo, quanto il riformismo, quanto il radicalismo sopravvissuto oltre le ceneri del marxismo, quanto da ultimo il magma populista dell’ultimo decennio sono state declinate nell’espansione incontrollata dei cosiddetti diritti umani, nella direzione cioè di libertà individuali indeterminate.
I diritti individuali sono stati il carburante attraverso cui le democrazie si sono messe in cammino e poi imposte sulla scena del mondo, prima sfidando l’autorità dell’«ancien régime», poi quella dei totalitarismi del Novecento. Una volta però che le democrazie li hanno legittimati come principi di evidenza laica in alternativa alle antiche autorità-verità di fede o statuali, i diritti hanno iniziato a puntare il loro mirino contro le democrazie stesse, rischiando di divenire un fattore di indebolimento e di disgregazione. La loro pericolosità è coincisa con lo slittamento da una prospettiva etica, in cui il giudizio sul riconoscimento di un diritto si svolgeva tra le categorie del buono, inteso come giusto, e del cattivo, inteso come sbagliato, a una prospettiva estetica, in cui la legittimazione di un diritto ha iniziato a coincidere con la sua stessa possibilità. E poiché la tecnica apriva grazie ai suoi potenti messi nuove possibilità, ciò che diveniva possibile era per ciò stesso anche giusto. Così l’espansione incontrollata dei diritti ha aperto la possibilità di compiere azioni produttive di effetti per la collettività, senza che ciò comporti assumerne la responsabilità morale. Declinati in un’estetica e, in assenza di un’Autorità da sfidare, i diritti sono diventati una forza fuori controllo delle democrazie. Il loro bilanciamento avrebbe potuto realizzarsi grazie a una corrispondente estetica dei doveri, ma nessuna della culture politiche, tra la fine del secondo millennio e l’inizio del terzo, ha saputo investire in una simile prospettiva. I doveri in Occidente, a differenza dei diritti, non sono mai stati belli, ma al più utili.
Ciò ha prodotto conseguenze diverse nei diversi universi politici di riferimento, ma tutte connotate da un deficit di realtà: esemplificando diremo che l’universo liberale ha smarrito la consapevolezza che il contenuto della libertà individuale è nel limite; quello riformista ha perduto coraggio rispetto alla capacità di far valere il primato della dimensione comunitaria; quello postmarxista ha declinato la tenace e concreta lotta di classe in un ambientalismo anti-industriale; da ultimo quello populista ha ingaggiato una battaglia tutta individuale contro le élite abiurando ogni delega fondata sulle categorie del potere e del sapere.
Se l’innovazione è così divenuta il più potente fattore di espansione dei diritti individuabili piuttosto che lo strumento per allargare e rafforzare le responsabilità collettive, non è una circostanza che possa attribuirsi a un difetto dell’innovazione stessa, ma piuttosto all’incapacità del pensiero politico e civile di valorizzare le possibilità che essa apriva. Molti degli effetti distorsivi che attribuiamo all’innovazione sono figli di una crisi della sovranità, intesa come capacità di mediare tra interessi diversi e talvolta divergenti cercando una sintesi nella quale il bilanciamento delle posizioni soggettive in gioco risponda a un interesse pubblico superiore. La crisi della sovranità in Occidente è l’altra faccia del primato della tecnica sull’uomo.
Ciò vale per esempio in relazione a una categoria decisiva per lo sviluppo di qualunque comunità umana in uno spazio condiviso: la legalità. Il suo perimetro tende oggi a coincidere acriticamente con le possibilità aperte dalla tecnica: così accade che azioni tra le più varie, dalla fruizione di contenuti un tempo protetti dal diritto d’autore fino all’utero in affitto, risultino vieppiù lecite, facili e spesso anche gratuite, nell’erronea convinzione che l’espansione dei diritti individuali coincida con l’espansione della democrazia. Il fenomeno è ancora più vero nella realtà virtuale. In questa si sviluppa un volume di relazioni umane superiore a quello che si registra nel mondo fisico, eppure i tutori dell’ordine pubblico sono infinitamente inferiori. Chi avesse dubbi su questa affermazione provi a mettere a confronto l’organico della polizia postale, che persegue i reati su internet, con quello dei numerosi corpi di forze dell’ordine presenti nella realtà. È singolare come lo stesso esercizio delle professioni vada incontro a conseguenze differenti a seconda che si operi o meno on line. Ciò è tanto più vero per il giornalismo, che incontra nella sua tradizionale dimensione del giornale cartaceo una serie di filtri di carattere corporativo e una serie di tassativi limiti imposti da precetti deontologici e leggi civili e penali, mentre sulla rete nei fatti non è sottoposto alcun limite.
Chiunque volesse riavvolgere il nastro della storia occidentale degli ultimi cinquant’anni e far valere sulla selvaggia andatura del progresso tecnologico le ragioni della sovranità, constaterebbe che gli strumenti di cui dispone non si adattano alle dimensioni del teatro del mondo in cui si svolge la sfida. L’innovazione è un fenomeno sovranazionale, non solo per la sua natura immateriale cui la globalizzazione ha offerto vasi comunicanti capaci di giungere in ogni dove, ma per il suo matrimonio con un’industria multinazionale che ne sostiene i costi di investimento. Di contro la sovranità non è mai riuscita a dare di sé una prova credibile oltre gli antichi confini degli Stati nazione. Il dibattito sul destino periclitante dell’Europa dovrebbe, a ragion veduta, tenere conto di questa evidenza. E osare di più.
© RIPRODUZIONE RISERVATA