Ma Napoli ha ancora
il diritto alla bellezza?

di Francesco Durante
Giovedì 1 Settembre 2016, 08:47 - Ultimo agg. 10:11
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Quanto pare lontano il 7 novembre 2015, il giorno fatidico in cui il celebre artista Michelangelo Pistoletto, dopo che al Parco Sempione la sua «Mela» scultorea era stata vandalizzata, rimproverò i milanesi che non sapevano rispettare l’arte pubblica e, siccome mai nessuna delle sue opere collocate in situazioni pubbliche a Napoli aveva mai subito danni, emise la sonora sentenza: «Speriamo che per una volta i milanesi si adeguino ai napoletani». Ieri, però, scrivendo sul nostro giornale, Alberto Ramaglia, amministratore unico dell’Anm, si è visto costretto ad aggiornare quell’assunto, correggendolo.

L’Azienda napoletana mobilità, da anni sottoposta a tagli e, di conseguenza, in evidente stato di criticità per quanto riguarda la qualità del servizio offerto, fa infatti fatica a sobbarcarsi «la difficile cura estetica e funzionale che richiede il complesso architettonico-artistico delle stazioni dell’arte», in cui sono sistemate oltre 200 opere della più varia tipologia che «richiedono strategie manutentive complesse» poiché esposte «a notevoli condizioni di stress ambientale e antropico dovuto alle polveri ferrose e a consistenti flussi di viaggiatori per almeno 17 ore al giorno».

Per quanto i napoletani possano essere rispettosi di questo patrimonio d’arte che nel tempo è diventato anche «un indubbio volano turistico», la sua gestione richiede dunque interventi complicati e risorse economiche assai cospicue che da qualche parte si debbono pur trovare, e che magari si trovano sottraendole ad altri impegni più coerenti coi fini di un’azienda che si occupa di trasporti pubblici. Chiudendo il suo civilissimo intervento, Ramaglia pone una questione che è molto più grande del caso specifico. Dice infatti che «per rafforzare la cultura dell’ordinario è necessario destinare con una seria programmazione risorse certe alla cura dei beni comuni», e questo anche per non dover più citare il noto adagio di Leo Longanesi, secondo il quale «alla manutenzione l’Italia preferisce l’inaugurazione». Il tema è d’importanza davvero cruciale in una città che, per quanto (relativamente) rispettosa del metrò dell’arte, di certo non può essere considerata un modello per quel che riguarda la cura degli spazi pubblici in generale.

Una città di panchine divelte, di arredi urbani puntualmente vandalizzati un giorno dopo l’inaugurazione, di paletti e dissuasori del traffico rimossi a scopo di parcheggio abusivo, di cartacce e spazzatura buttate dove capita e, per tornare a bomba, di mezzi di trasporto (treni o autobus che siano) trattati come se fossero «res nullius» da rendere squallidi, sporchi e tendenzialmente impraticabili. In questi anni siamo tutti diventati, chi più chi meno, un po’ rivoluzionari, tanto che della retorica benecomunista siamo ormai tra i più fantasiosi interpreti. Ci siamo concessi il lusso di delibere come quella (la prima in Italia, come la ferrovia di Portici!) che istituisce il divieto di fumo in Villa Comunale, ma nel frattempo non abbiamo fatto molto per evitare che la Villa Comunale quasi sparisse.

In definitiva, abbiamo assicurato nuova e più avventurosa vita all’adagio longanesiano, dato che ormai le cose non ci serve nemmeno più inaugurarle: basta nominarle e già ci sembra di averle timbrate con l’ottimistica stampigliatura di berlusconiana memoria: «Fatto!». In realtà facciamo troppo poco per cancellare questa diffusa immagine di sciupio, di sciatteria, di disattenzione e lassismo che sempre, e in ogni strada, ci comunica l’idea di un lento, tormentoso, inarrestabile degrado. Siamo troppo tolleranti coi vandali le poche volte che li sorprendiamo sul fatto. Abbiamo telecamere che, se funzionano (e di solito non funzionano), non sono comunque presidiate. Ci acconciamo a riparare, peraltro con intollerabile ritardo e nella sostanziale certezza che sarà inutile, quanto viene vandalizzato, e in fondo mostriamo di considerare questa situazione non emendabile, una sorta di destino antropologico cui non ci si può sottrarre proprio per ragioni antropologiche: perché siamo fatti così, e non c’è alba di redenzione.

Non è l’atteggiamento giusto.
Dovremmo riuscire a vivere in una comunità in cui il danno non sia la regola, bensì la nefasta eccezione che, in quanto tale, andrebbe seriamente combattuta e punita. Dovremmo prevenire con maggiore decisione e severità. E trovare il modo per far sì che un’azienda come la Anm potesse liberarsi dell’onere di svolgere compiti che tutto sommato non dovrebbero competerle, per dedicarsi invece ai suoi prioritari scopi istituzionali, che sono quelli di aggiornare il parco mezzi, di rispettare gli orari delle corse, di garantire agli utenti un servizio decoroso ed efficiente.
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