Almaviva. Maria, Massimo e due figli con l'incubo disoccupazione

Almaviva. Maria, Massimo e due figli con l'incubo disoccupazione
di Francesco Romanetti
Mercoledì 21 Dicembre 2016, 09:03 - Ultimo agg. 09:07
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Ci sono i turni. Per chi fa sei ore, sono 7-13, oppure 8-14, oppure 13,30-19,30, o 16-22. Domeniche comprese. Allora, quando lei deve entrare alle 7, lui l'accompagna da Pianura a via Brin, zona Ferrovia, con la Peugeot 307 usata, che hanno comprato a rate. Poi lui torna a Pianura. Porta i figli a scuola e ritorna un'altra volta a via Brin, dove lavora anche lui. Altrimenti, se l'orario del turno lo consente, lei prende un paio di autobus e la metropolitana per stare in tempo alla postazione di lavoro. «Ci siamo conosciuti proprio qui all'Almaviva - racconta lei, Maria - E ci siamo sposati». Maria è Maria Giancola, 43 anni, diploma superiore, alla società di call center dal 2000. Un paio di anni con contratti a termine, che scadevano e venivano rinnovati. Poi l'assunzione a tempo indeterminato, nel luglio del 2002. «Ero contentissima - dice - dopo anni di lavoretti saltuari e al nero, finalmente uno stipendio fisso. Prima avevo fatto la baby sitter, assistenza agli anziani, addetta ai tavoli per una ditta di catering». Lui invece è Massimo Siragusa, 44 anni, a sua volta approdato al call center dopo vari mestieri (rigorosamente al nero): cameriere, spedizioniere, operaio. «Lavoravo per pagarmi gli studi all'università. Feci pure diversi esami a Economia e commercio, poi dovetti interrompere». Massimo Siragusa e Maria Giancola, marito e moglie, sono soltanto due degli 843 lavoratori della sede di Napoli di Almaviva. Tutti e due rischiano adesso di perdere il posto. «Una vita di sacrifici. Mettere su famiglia, fare i figli, poter contare su due stipendi. E ora l'idea di poter perdere tutto e tutto in una volta», dice Maria.

Benvenuti nel «nuovo proletariato». Quello che ha perso un bel po' di diritti, che sta tra precariato e bassi salari, che
non ha certezze e che un altro bel po' di diritti se li deve ri-conquistare. Dentro e intorno al call center c'è un po' tutto: le nuove forme di alienazione, di sottrazione di tempo, di stress, di malattie professionali. E di insicurezza. Perché il call center al tempo della globalizzazione vuol dire anche il ricatto della delocalizzazione: se posso risparmiare sui costi, delocalizzo. E tu perdi il posto. Massimo è anche rappresentante sindacale. Osserva: «Se sei alla catena di montaggio magari puoi spegnere il cervello. Se stai per otto ore con le cuffie nelle orecchie a parlare con i clienti, non puoi concederti soste psicologiche. Questo è un lavoro davvero usurante e non solo dal punto di vista fisico. Con gli anni diventa devastante dal punto di vista mentale. Le aziende richiedono il risultato e pretendono che le persone siano macchine». Tra i «risultati» c'è quello di almeno 12 telefonate all'ora. Per otto ore di lavoro fanno 96 telefonate. Settantadue per sei ore. L'azienda preme per «tenere i tempi bassi»: cioè più telefonate.

Un po' di conti. Busta paga di Maria: da mille a millecento euro al mese. Dipende dalle domeniche. Se ne fai una o due o tre. Busta paga di Massimo, che lavora per otto ore al giorno: tra milletrecento e millequattrocento. Due figli: Massimo junior, di 13 anni e Simone di 9 anni. «Ora abitiamo nella casa che era di mia suocera e ci riteniamo fortunati - spiega Maria - ma fino a due anni fa stavamo a Bagnoli in affitto e 350 euro al mese se ne andavano per la casa. Poi ci sono le altre spese fisse: tangenziale, benzina, auto, trasporti. Bollette di luce e gas. E tutto il resto. Mio figlio piccolo mangia alla mensa scolastica: da 30 a 35 euro al mese. Si riesce a campare dignitosamente, ma certo bisogna tirare al risparmio».

E se Almaviva davvero licenziasse? E se tutti e due perdessero il lavoro? 

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