Mimmo Jodice: «La regola del buon fotografo? Guarda gli altri e fai l'opposto»

Mimmo Jodice: «La regola del buon fotografo? Guarda gli altri e fai l'opposto»
di Maria Chiara Aulisio
Sabato 20 Febbraio 2016, 14:02 - Ultimo agg. 21 Febbraio, 12:37
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Se si attribuisce un merito, dall'alto di una forma di modestia che farebbe meglio a lasciar perdere considerando il palmarés che ha all'attivo, è quello di aver lavorato per dare credibilità alla fotografia come «linguaggio dell'arte». Domenico Mimmo Jodice, classe 1934, napoletano della Sanità, racconta la sua storia e quella di una grande passione per l'arte che in mezzo secolo di carriera lo ha portato in vetta alla classifica dei fotografi più apprezzati in Europa e nel mondo. Ama il teatro, la musica classica e il jazz, da autodidatta si appassiona al disegno e alla pittura, poi scopre la fotografia e sceglie di dedicarsi solo a quella, ma fuori dagli schemi, lontano da ogni convenzione, convinto che il bianco e nero sia più bello del colore, che in una immagine meno c'è meglio è, e che se vuoi provare a fotografare alla Jodice devi seguire una regola ben precisa.
Quale?
«Fare il contrario di quello che fanno gli altri».
In che senso?
«Nella mia vita ho sempre cercato la dimensione innovativa delle cose. A cominciare dalla tecnica fotografica che ho scelto di usare».
Quale?
«Quella che sono riuscito a costruirmi lavorando in camera oscura».
In che cosa consiste?
«Nel fare esattamente tutto ciò che non si dovrebbe fare. Ho sempre sperimentato al contrario nella perenne ricerca di una dimensione innovativa delle cose. Ero solo un ragazzo e già odiavo le foto tradizionali».
Che cosa intende per «foto tradizionali»?
«Quelle classiche. Sapete come fa la maggior parte di chi si diletta a fare foto? O che bel tramonto, o che bel mare e scatta. No, non ho mai fatto neanche una foto ispirata così».
Che cosa ispira Mimmo Jodice?
«Il mare e il mondo antico per esempio, ma non è questo. È che non mi interessa la dimensione della realtà al punto tale che le mie fotografie vengono spesso definite metafisiche».
Addirittura?
«La mia ricerca è un lavoro di autoanalisi dal quale affiora il dato surreale della vita di tutti i giorni. Le mie foto sono riflessioni che faccio come uomo rispetto alla realtà, poi ci lavoro per anni».
Il mare e il mondo antico, dunque.
«A cominciare dall'archeologia, io che mi ritrovo nel passato, incontro e rivedo i luoghi, le persone. Non sono immagini di reperti ma foto vive che rappresentano la mia dimensione reale. Poi le città». Quali?«Tante, tantissime. Napoli naturalmente, Parigi, San Paolo, Roma...».
Sempre bianco e nero, perché?
«Quando ho cominciato il colore non c'era ma anche dopo ho scelto di non usarlo. E una ragione c'è: le foto che scatto sono lontane dalla quotidianità e il bianco e nero è un colore depurato dalla dimensione reale».
Solo fantasia, quindi?
«Non è proprio così: le mie foto partono dalla realtà, da una inevitabile quotidianità immersa però in una dimensione visionaria e silenziosa».
Più surreale che reale, insomma.
«Certo. Ho sempre considerato la fotografia come un linguaggio da utilizzare non per fare copie della realtà ma per realizzare immagini pensate. Le mie foto sono molto surreali».
Più artista che fotografo?
«Tutto è cominciato quando mi sono trovato tra le mani un piccolo ingranditore».
Un ingranditore?
«Sì, una macchinetta con la quale si stampavano le foto. Senza quasi sapere come funzionasse iniziai a sperimentare e mi resi conto delle grandi potenzialità che offriva per un lavoro creativo che andasse oltre quello dei tradizionali soggetti dei fotoamatori».
Faccia un esempio.
«Al posto del negativo da stampare in positivo, provai a metterci dentro dei pezzettini di stoffa, carta, granelli di sale, foglie, di tutto».
Che cosa ne venne fuori?
«Piccole opere d'arte anche se non vorrei sembrare presuntuoso. Le mie prime foto erano vere e proprie sperimentazioni. Le stampavo poi le strappavo, le incollavo e le lasciavo così. Se piacevano o meno mi è sempre interessato molto poco».
Però invece piacevano.
«A giudicare dalle mostre allestite nei musei di tutto il mondo devo dire proprio di si».
C'è una mostra che ricorda con particolare entusiasmo?
«A parte la prima, a New York, negli anni 80, forse quella al Louvre nel 2011: l'idea ruotava intorno a come si sarebbero rapportati e a che cosa avrebbero fotografato i grandi ritrattisti del passato se avessero avuto a disposizione delle macchine fotografiche».
Lei che cosa immaginò?
«Pensai a Leonardo, a Raffaello, a Tiziano... Partendo da questa concezione, mi sostituii a loro e scattai dei primissimi piani delle loro opere, venne fuori una ricerca di volti molto espressivi messi a confronto con i tanti che lavoravano al Louvre, dal bigliettaio al direttore. Fu un gran successo».
Bella soddisfazione.
«Certo. Ma più che il successo dell'esposizione fu un'altra cosa a regalarmi una grande gioia».
Che cosa?
«Scorgere in sala un gruppo di ex allievi che in treno, da Napoli, era venuto a Parigi solo per vedere la mia mostra. Fu un momento emozionante. Ricordo che mollai tutto e mi dedicai solo a loro».
A proposito di allievi, quanti ne ha avuti?
«Tanti. E non solo quelli che seguivano le mie lezioni in Accademia. Sono sempre stato circondato dai giovani».
Quanti anni ha insegnato alle Belle Arti?
«Dal 1970 al 1994. Purtroppo sono dovuto andare via prima del tempo».
Perché?
«I miei impegni aumentavano. Viaggiavo sempre più spesso però ai ragazzi ci tenevo e avrei fatto qualunque cosa pur di continuare a insegnare ma non fu possibile. Non per questo ho smesso di frequentare gli studenti. Ancora oggi vengono nel mio studio, chiedono consigli, a volte sono talmente tanti che non riesco neanche a lavorare».
Quanta fantasia deve avere un buon fotografo?
«Un momento: prima si impara la tecnica, poi ci si guarda intorno e infine viene la fantasia. Lo dico sempre ai ragazzi: osservate che cosa succede intorno a voi. Nella mia vita, grazie anche alla passione di mia moglie Angela, ho comprato oltre cinquemila libri di fotografia».
Cinquemila libri?
«Ero ragazzo, avevo pochi soldi, andavo in giro e tornavo sempre senza una lira ma con qualche libro in borsa. Posso mai fare il musicista senza avere ascoltato la musica di tutti? Non credo. Ecco, per la fotografia è lo stesso. Solo dopo si può pensare alla creatività e alla capacità di riuscire a creare emozioni».
Ultimo consiglio agli aspiranti fotografi.
«Quando avete deciso che quella è la vostra foto prima di scattare pensate che cosa togliere dall'inquadratura: meno c'è meglio è. L'essenzialità genera più emozione del caos».