Napoli, Loreto mare, il giuslavorista:
«Possono essere sospesi, non licenziati»

Napoli, Loreto mare, il giuslavorista: «Possono essere sospesi, non licenziati»
Lunedì 27 Febbraio 2017, 11:24 - Ultimo agg. 11:36
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«I 55 furbetti del cartellino dell'ospedale Loreto Mare di Napoli, colti in fragranza di reato con prove schiaccianti raccolte dal PM Ida Frongillo e ai domiciliari (su 94 indagati), di fatto non possono essere licenziati ma solo sospesi. Non a caso 50 di loro - in base a quanto appreso dagli organi di stampa - hanno ottenuto, paradossalmente, il permesso dal giudice di continuare a lavorare, potendosi spostare solo nel tragitto casa e lavoro. Siamo al paradosso tipico del diritto del lavoro italiano in cui dipendenti pubblici colti in fragranza di reato a seguito di un'indagine della Procura siano ancora al loro posto». È quanto scrive, in un proprio intervento, Luca Failla, avvocato e giuslavorista, socio fondatore di LABLAW, il primo studio italiano per professionisti e diffusione capillare sul territorio specializzato in diritto del lavoro e relazioni sindacali. «Tale situazione, seppur motivata dall'esigenza stringente di garantire un servizio fondamentale -spiega Failla- come quello ospedaliero che l'immediato e generalizzato all'allontanamento avrebbe potuto compromettere, evidenzia, tuttavia, un'enorme distorsione del nostro diritto, come periodicamente rilevano le cronache dei giornali (vedi caso recente dell'Ospedale di Saronno), che favoriscono i furbi a svantaggio di chi fa semplicemente il proprio dovere».


«È vero che l'art. 55 del Dlgs 165/01 (la cosiddetta Riforma Brunetta) autorizza il licenziamento per i casi gravi di abusi come questi -spiega il giuslavorista- in cui non si deve più attendere la sentenza passata in giudicato ma si può procedere al licenziamento anche con sentenza non definitiva, ma la prassi delle pubbliche amministrazioni è in senso opposto, ossia quella di sospendere i dipendenti coinvolti e la stessa procedura disciplinare fino alla sentenza penale definitiva che arriverà solo a distanza di molti anni (se non interviene prima il patteggiamento con buona pace della condanna)». Secondo il giuslavorista «il tutto come consentono ancora oggi sia i contratti collettivi di comparto che, per i casi di 'particolare complessità', lo stesso articolo 55 Ter D.Lgs. 165/01 che anche i recenti decreti Madia hanno ritenuto di non modificare come sarebbe stato invece auspicabile. Con la conseguenza, ancora oggi, che in presenza di procedimento penale e magari con l'arresto degli indagati, con buona pace della riforma Madia e della certezza del diritto, la Pa non procederà mai al licenziamento degli indagati, preferendo attendere come sempre accaduto in passato, l'esito definitivo del giudizio penale. Non a caso solo il 3% delle azioni disciplinari si è concluso con un licenziamento su un totale di 8259 procedimenti nel 2015».

«Tale conclusione pare altresì forzata tenuto conto che durante la fase delle indagini penali la Pa datore di lavoro -continua ancora il giuslavorista- non ha neppure accesso alle informazioni ed alle investigazioni del procedimento penale (indagini, riscontri probatori, videoregistrazioni, intercettazioni o altro) indispensabili per poter avviare il procedimento disciplinare (contestazione degli addebiti) e comminare poi un regolare licenziamento, venendo spesso a sapere dei fatti e magari degli arredi dei propri dipendenti unicamente dagli organi di stampa!».
Per Failla «in buona sostanza, anche dopo la recente riforma Madia - nel testo licenziato la settimana scorsa dal Consiglio dei Ministri - non si è ovviato in alcun modo al problema che rimane attuale. Al contrario si sarebbe dovuto: cancellare da un lato la facoltà per la pa di sospendere il procedimento disciplinare e di attendere l'esito del procedimento penale (come previsto invece all'art. 55 Ter TU pubblico impiego); consentire alla Pa l'accesso ai dati investigativi del procedimento penale (indagini, rapporti, videoregistrazioni, intercettazioni o altro)». E ancora, insiste il giuslavorista, «facilitare alla pa un rapporto diretto con il pm volto all'acquisizione tempestiva di informazioni che riguardano i propri dipendenti sottoposti ad indagine penale; introdurre l'obbligo dei dipendenti indagati di mettere tempestivamente a disposizione della pa tutte le informazioni provenienti dal procedimento penale (ad es. il provvedimento di custodia cautelare o l'avviso di garanzia) che quasi sempre i dipendenti si rifiutano persino di fornire al datore di lavoro invocando addirittura la privacy».



E inoltre «si sarebbe dovuta prevedere esplicitamente la abrogazione di tutte le norme (di miglior favore per gli indagati) contenute nei contratti collettivi di comparto in contrasto con la regolamentazione vincolante contenuta negli art. 55 e ss. Testo unico del pubblico impiego. Non avendolo fatto, al di là dei proclami la Pa resterà nella attuale situazione di immobilismo e di incertezza normativa in cui da sempre si trova». Per Failla «sebbene i recenti decreti Madia (di prossima pubblicazione) consentiranno in futuro il licenziamento anche solo in presenza della sentenza di condanna di primo grado (art. 55 Ter) nessuna Pa si arrischierà a licenziare dei dipendenti in assenza di una condanna definitiva, troppo alto il rischio di una assoluzione poi in appello o un annullamento in Cassazione con il rischio poi di vedersi reintegrare i dipendenti a distanza di anni (con responsabilità magari davanti alla Corte dei Conti)». «Meglio allora attendere -aggiunge- che la 'giustizia penalè faccia il suo (lento) corso con buona pace dei furbetti che al massimo saranno sospesi ma continueranno ad essere pagati come prevedono peraltro quasi tutti i contratti collettivi di comparto siglati dalle organizzazioni sindacali».

Secondo l'esperto «la situazione diventa ancora più paradossale nel caso di patteggiamento ove eventualmente concesso. Come noto per la giurisprudenza più diffusa una eventuale sentenza di patteggiamento in sede penale ex art. 444 c.p.p. non costituisce vera e propria sentenza di condanna. Di conseguenza è pressoché impossibile che un eventuale patteggiamento della pena, ove concesso, possa avere rilevanza quale prova della giusta causa di licenziamento con l'effetto immediato del reintegro in servizio, come spesso accaduto nelle aule dei Tribunali del lavoro in questi anni dove i giudici hanno quasi sempre reintegrato i lavoratori coinvolti».


 
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