Napoli, l’eccentrico «professore»
morto sommerso dalla carta

Napoli, l’eccentrico «professore» morto sommerso dalla carta
di Pietro Treccagnoli
Mercoledì 6 Settembre 2017, 23:59 - Ultimo agg. 7 Settembre, 18:42
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La solitudine può essere una scelta di vita e pure una scelta di morte. Rendersi invisibile, vivendo nel cuore di Napoli, a pochi passi dal Museo Nazionale, in un appartamento enorme di un palazzo settecentesco che con il suo rosso abbaglia e seduce, ma che può trasformarsi in una tana, dove lasciarsi morire. Claudio Savarese, aveva compiuto 90 anni a luglio, non aveva figli, non era mai stato sposato. Non aveva neanche mai davvero lavorato. Hanno trovato il suo corpo senza vita l’altra mattina, nella casa al quinto piano con affaccio sulla Galleria Principe di Napoli, la Galleria Poverella. Era morto da una quindicina di giorni probabilmente e dalla porta scrostata, chiusa alla meglio con un catenaccio, si sentiva un forte odore. La puzza della morte. Era il signor Savarese, il professore, come lo chiamavano, anche se non aveva mai insegnato. 

Quando la polizia e i vigili del fuoco sono arrivati hanno scoperchiato un vaso di pandora fatto di carta, carta e carta. Le stanze, una nell’altra, ampie, con alti soffitti come si addice a un palazzo d’epoca, e un vasto salone dove si sarebbero potute dare feste aristocratiche, tutto, tutto era sommerso da giornali, buste vuote di negozi, libri, riviste, fascicoli, appaiati e spaiati, faldoni pencolanti su una pila di cartoni, barattoli di caffè, lattine, un trolley, persino manifesti funebri. Giornali, giornali, giornali. Montagne cresciute negli anni, tracimate tanto da ingombrare completamente il pavimento. È la sindrome dell’accumulo, dell’accaparramento compulsivo. La disposofobia, come la chiamano i medici. C’era qualche sospetto, ma nessuno aveva mai immaginato che fosse arrivato a tanto. Perché il professor Savarese a casa non riceveva nessuno. Aveva qualche amico, appassionato di lirica come lui che per anni aveva frequentato il teatro San Carlo. Ma li vedeva fuori. Quando li vedeva. Perché, inconsapevolmente, aveva costruito la propria vita come quella di un eteronimo dello scrittore portoghese Fernando Pessoa. Uomini soli, con vite posticce e nello stesso tempo concrete. Vite passate a contemplare il mondo dalle finestre o riflesse sulla carta. Parole assordati in un silenzio ancora più stordente. L’inquietudine sedata da un’affollata solitudine. A frequentarlo negli ultimi anni era il ginecologo Castrese Loffredo che lo ricorda come una persona straordinaria, seppure eccentrica. Si incontravano fuori, naturalmente. Nella casa dove era nato e che non ha mai lasciato non entrava più nessuno. E come poteva entrare? «Claudio aveva tutta una originale filosofia. La chiamava il fato determinismo», rievoca il medico. Cioè? «Diceva che le cose accadono perché devono accadere. Si era ridotto a vivere da asceta. Ma da tempo era stanco. E spesso parlava di morte».

Savarese, raccontano nel palazzo con affetto e discrezione, a bassa voce, era una persona distinta. Fisico ancora possente: «Teutonico, più che napoletano». L’unico contatto con i condomini, tranne il cordiale buongiorno e buonasera, erano stati fino a qualche anno fa, gli acuti e i gorgheggi di tenori e soprani che fuoriuscivano dalle finestre, perché il professore ascoltava in continuazione l’opera. Fino a quando ci fu un piccolo incendio in casa. Gli tagliarono temporaneamente luce, gas e acqua. Ma per il professore fu un segnale. Rimase a vivere così senza acqua, gas e luce, come un Diogene del terzo millennio. Dalle ante chiuse, scrostate non uscì più una nota. Ma Savarese non era guarito dalla febbre per la musica classica. «Possedeva una collezione sterminata di vinili» continua Loffredo. «Andava fino a Ravello e persino a Mantova per ascoltare concerti. Con il treno o con i pullman. È stato attivo e lucido fino alla fine». Ripeteva con ossessione che desiderava morire nella propria casa, fin quasi a profetizzare che avrebbero trovato il suo corpo senza vita dopo giorni.

Mangiava fuori. Di mattina neanche il caffè bollente dalla moka come una maschera di Eduardo De Filippo. E se non usciva si accontentava di scatolette (ne hanno trovato a centinaia mescolati alla carta). Aveva orari irregolari. Non doveva dar conto a nessuno, commentano i vicini. Non dava fastidio e non voleva riceverne. «So che andava a un trattoria di piazza Bovio, alla Borsa» racconta Sossio Persico, l’edicolante di via Pessina, angolo Salvator Rosa, uno dei pochi con il quali ancora si intratteneva a parlare. «L’ho visto l’ultima volta all’inizio di agosto. Era sempre bene in salute, alla sua età riusciva a leggere benissimo senza mettere gli occhiali. Ultimamente insisteva sempre più su un argomento che gli stava a cuore, un argomento dal quale io tentavo di distoglierlo». Quale? «L’eutanasia. Diceva che gli sarebbe piaciuto andare a morire in Svizzera». Come uno stoico. Lo conferma Loffredo: «Quando veniva a trovarmi in clinica, mi portava spesso articoli di giornali in cui si parlava dell’eutanasia praticata in altri Paesi, commentando: “Questi sono popoli civili, non come noi italiani”». Persona coltissima, insiste Persico: «Comprava un tanti giornali in modo compulsivo. Amava la carta, tanto che spesso l’ho visto strappare manifesti dai muri e portarli via. Una volta mi ha lasciato in custodia un cartone vuoto di spumante raccattato chissà dove ed è passato a prenderlo prima di tornare a casa».

I tratti della personalità di Savarese sono scarni. Se lasciava qualche traccia accadeva per caso, nonostante avesse un carattere cortese, figlio di un’educazione al rispetto, ma anche alla ritrosia. Risaliva a piedi la piccola salita verso San Giuseppe dei Nudi, la stessa delle prime scene del «Giudizio Universale» di Vittorio De Sica, quando Fernandel, fresco vedovo, marca stretto la formosa bionda che vuole sedurre. O forse, fino a quando sono state aperte, ha approfittato, gradino gradino, della Scala di San Potito, cara a Luigi Incoronato e ai napoletani appassionati dei passaggi insoliti e segreti. Superava Palazzo Solimena, che il celebre pittore fece costruire abusivamente tre secoli fa, e s’infilava nel proprio portone, dove ieri era affisso un piccolo biglietto che ne segnalava la scomparsa, improvvisa, scoperta dopo un paio di settimane. L’ascensore e poi il silenzio borghese, la tranquillità di una vita senza affetti stretti. Ma con molte proprietà, suppongono i conoscenti. Avrebbe potuto fare un’altra vita. Ma questa è stata la vita che si è scelta. La casa dove l’hanno ritrovato l’aveva ormai venduta, come nuda proprietà all’amico Loffredo. Continuava ad abitarci, ma aveva avuto altre rendite da beni immobiliari nel Vesuviano. «Quando una volta gli chiesi come vivesse» ricorda il ginecologo «mi confessò che aveva solo la pensione sociale, ma a poco a poco, man mano che finivano i soldi, aveva venduto le case che gli aveva lasciato in eredità il padre a suo tempo attivo costruttore».

Ora dell’ombra che passeggiava per piazza Dante, scendeva per Toledo e si fermava all’imbocco del Rettifilo, sesta solo una porta forzata, con gli infissi scardinati e un tubo di metallo a fare da interdizione al bosco parlante gonfio di parole mute che nessuno più può leggere, che il tempo ha ingiallito e ha impregnato degli odori di chiuso, di segreto, di silenzio fatale.

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