Raffaele Aragona: l’ingegnere che costruisce
enigmi e giochi di parole

Raffaele Aragona: l’ingegnere che costruisce enigmi e giochi di parole
di Maria Chiara Aulisio
Sabato 30 Aprile 2016, 09:30
5 Minuti di Lettura
Ingegnere di professione, per molti anni docente di Tecnica delle costruzioni nella facoltà di Architettura, ma soprattutto appassionato di enigmi, ludolinguistica e letteratura potenziale. In altri termini: scienza pura applicata a estro e fantasia. Ovvero: avete mai provato a scrivere un messaggio, un articolo, o un libro intero, eliminando una lettera dell’alfabeto, per esempio la “e”, alla Perec? Voi forse no ma il professor Raffaele Aragona sì. Non solo ci ha provato ma soprattutto ci ha provato gusto e ha deciso che questa “stravaganza” culturale sarebbe diventata disciplina.

In che modo, professore? 
«Mettendo insieme un gruppo di persone con la mia stessa passione».

Mica facile?
«Per niente. All’inizio si divertono tutti poi però bisogna applicarsi, studiare, concentrarsi e in tanti lasciano perdere».

Quindi?
«Ho fondato l’Oplepo».

Detto così sembra uno scioglilingua...
«Invece è l’Opificio di letteratura potenziale, la versione italiana dell’Oulipo, Ouvroir de Littérature Potentielle, il laboratorio letterario francese fondato da Raymond Queneau e del quale fecero parte Italo Calvino e, appunto, Georges Perec».

Si spieghi meglio.
«L’idea è quella di mettere insieme una letteratura a vocazione matematica e una matematica a vocazione letteraria. In parole più semplici, sosteniamo il principio secondo il quale l’invenzione non è più nel testo, ma nella regola».

Professore, faccia un esempio pratico.
«Poniamo che uno studente debba scrivere un tema. Se gli lascio campo libero rispetto alla traccia avrà certamente qualche difficoltà in più a orientarsi».

Quindi?
«Se gli dico che il primo paragrafo deve cominciare con la A, il secondo con la B, il terzo con la C, avrà delle regole da seguire e dalle quali far partire i concetti che intende esporre».

Altro esempio.
«Il libro giallo».

Che vuol dire?
«Ci abbiamo provato fissando norme precise grazie alle quali abbiamo ottenuto un ottimo risultato. Erano sei prove di letteratura poliziesca potenziale da inventare nel rispetto di regole ferree».

Quali?
«Dal numero di battute all’ambientazione al nome dei personaggi, ai quali doveva corrispondere un carattere e una personalità che avessero precise attinenze con il nome che portavano».

E questa sarebbe la letteratura potenziale?
«In estrema sintesi, sì».

Quindi lei è un maestro di “letteratura potenziale”?
«Mi piacerebbe, ci ho provato. Ho tenuto lezioni e seminari all’università ma i ragazzi poi non approfondiscono».

Colpa del prof?
«Ma no. È che si tratta di uno studio per il quale bisogna avere molta passione. Non è una materia che si studia e si impara. Ci vogliono curiosità e voglia di applicarsi. Sono pochissimi quelli che scelgono di seguirci: in tutta Italia siamo quattrocento, non di più».

Stesso discorso anche per l’enigmistica?
«Più o meno».

Ma c’entra qualcosa con le parole crociate?
«Proprio no, anzi forse un po’ si. In realtà, anche se non ci sono rebus e cruciverba, sempre si tratta di un gioco solo che lo sviluppiamo dal punto di vista letterale e semantico».

Esempio enigmistico.
«Scrivere una cosa che ne significa due. Faccio un esempio che è meglio».

Forse sì.
«Una poesia sulla primavera che, leggendola, potrebbe essere assimilabile anche a una sulla pantofola. Due cose completamente diverse il cui testo va bene per entrambe». 

Mica facile?
«Vi recito una poesia?».

Prego.
«Si intitola “La nonna” ma c’è anche un altro titolo che lascio indovinare a voi». 

Reciti la poesia.
«Lavora ad ago fino a mezzanotte per aggiustare le mutande rotte».

Un epigramma?
«Sembra, però significa anche un’altra cosa».

Che cosa?
«La bussola».

La bussola?
«Lavora ad ago fino a mezzanotte, che cosa? Se ci pensate la bussola è uno strumento ad ago, la mezzanotte invece rappresenta il nord».

E le mutande rotte?
«La rotta da mutare, da aggiustare. Dunque: quella strofa può rappresentare una nonna intenta a rammendare biancheria ma anche una bussola che indica la rotta verso nord». 

Stiamo divagando un po’: veniamo agli allievi.
«Sul fronte degli enigmi ne ho avuti pochi anche se negli ultimi tempi devo ammettere che sto registrando un interesse crescente».

Allora parliamo dell’università.
«Qui c’è solo l’imbarazzo della scelta. Ho insegnato per anni Tecnica delle costruzioni ad Architettura. Ho incontrato generazioni di studenti anche se la mia materia non era una delle più amate».

Perché?
«Sono un ingegnere, la mia era una disciplina complessa ed essenziale, concreta direi, molto lontana dalla testa degli studenti di architettura. Tanto è vero che il mio esame finiva sempre tra gli ultimi».

Forse era troppo esigente?
«Ma no. Pretendevo che si studiasse ma non sono mai stato troppo severo. Però non agevolavo nessuno e soprattutto non ho mai accettato raccomandazioni».

Mai mai?
«Quando qualche amico veniva a segnalarmi uno studente la mia risposta era sempre la stessa: “Non me lo dire proprio che fai peggio”».

Peggio? Addirittura?
«E certo. Per evitare che si potesse anche solo pensare che stavo agevolando qualcuno diventavo più severo».

Terribile davvero.
«Una volta, nella seconda fase della contestazione studentesca, quella del ‘74, una mattina arrivai all’università e sul muro di palazzo Gravina trovai una grossa scritta».

Che cosa diceva?
«Aragona boia, cacciamolo dall’università»

E lei?
«Non bastò a convincermi a cambiare atteggiamento: sapevo che non sarebbero mai diventati bravi se non avessero approfondito anche quelle materie oggettivamente più ostiche ma fondamentali per la professione. In tanti oggi mi ringraziano».

La ricordano con affetto, quindi?
«E con ironia. Uno di loro è venuto a trovarmi recentemente, ci siamo fatti un sacco di risate, mi ha detto “professo’, si ricorda il cartello che aveva appeso dietro alla sua scrivania?”».

Lo ricordava?
«Benissimo: “cari studenti, se siete venuti a dirmi che “sono incinta”, “devo partire per il servizio militare”, oppure “è l’ultimo esame”, avete sbagliato stanza».
© RIPRODUZIONE RISERVATA