Napoli, vigilante ucciso nella metro: «Ho detto di picchiarlo a sangue, era un gioco dopo l'ultimo spinello»

Napoli, vigilante ucciso nella metro: «Ho detto di picchiarlo a sangue, era un gioco dopo l'ultimo spinello»
di Leandro Del Gaudio
Domenica 18 Marzo 2018, 11:55 - Ultimo agg. 15:58
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Da queste parti, tra i palazzoni popolari e le stazioni della metro collinare, le notti in qualche modo pure devono passare. Qui, tra le stazioni della metro collinare e qualche aiuola mal curata, sembra che il giorno non arrivi mai, almeno a leggere i verbali dei tre indagati per l'omicidio di Francesco Della Corte. Hanno ammesso di aver aggredito e tramortito un uomo colpendolo alle spalle, hanno poi avuto molte esitazioni a confermare il movente economico (la tentata rapina da rivendere al ricettatore per 5-600 euro) e hanno confermato un punto su tutti. Alle tre di notte, quando anche l'ultima cornetteria chiude bottega, ti ritrovi con dei pezzi di legno tra le mani e davvero hai bisogno di fare qualcosa: ed è così che decidi di puntare su quello che tutte le notti, fa la stessa cosa, che è poi il suo lavoro, la ronda da vigilantes.
 


Lo chiarisce uno dei tre, quello che viene indicato come il capobranco, il 17enne L.C, che ammette in modo gelido: «Ho finito di fumare l'ultimo spinello e ho detto: guagliù, ora picchiamo il metronotte». Confessioni simili, tre minori indagati per omicidio, che ammettono manco se fossero allo specchio che non hanno avuto esitazioni ad abbandonare in fin di vita un uomo colpito con tanta violenza: «Pensavamo che stesse russando», ha detto uno dei tre indagati. Ma sono solo alcuni stralci degli interrogatori che hanno giustificato il fermo del pm Ettore La Ragione, al termine di interrogatori scanditi dal pianto degli indagati e dalla rabbia di qualche genitore. Parla per primo K.A., 15 anni da poco compiuti, figlio di un parcheggiatore abusivo e di una domestica, uno che non ha esitato un attimo ad assumersi le sue responsabilità: «Le notti passano così, a giocare a mazza e pietre. Prendiamo le mazze dalla spazzatura, usando pezzi di vecchi mobili, facciamo saltare un coccio di bottiglia e poi lo colpiamo al volo. Con quelle mazze - è la sintesi dell'interrogatorio di garanzia - abbiamo aggredito quell'uomo, sapevamo che alle tre di notte faceva il suo giro». Difeso dalla penalista Antonella Franzese, K.A. ha pianto alla fine, ha chiesto se poteva scrivere una lettera alla famiglia del 51enne ucciso. È stato lui ad ammettere che l'obiettivo era la pistola del vigilante. Stesso copione da parte di C.U., terzino promettente della Chiaiano Brothers, in uno scenario investigativo che si è arricchito nelle ultime ore anche di alcune intercettazioni. Venerdì pomeriggio, vengono intercettate due ragazze, una delle quali è la fidanzata di uno dei tre minori arrestati. Sanno tutto degli arresti, commentano al telefono e via whatsapp: «Hai visto che è successo?», dice la prima alla seconda; che replica: «Ma allora sono stati loro? Che guaio». E ancora: «In casa stanno morti, ora si fanno 16 anni di galera».
 
Ma torniamo agli interrogatori messi agli atti. C.U., 17 anni, è la speranza di un intero rione. Gioca in difesa, il sogno di assomigliare sempre di più ad Armando Izzo, difensore del Genoa nato a Scampia. Spiega il 17enne: «Volevamo andare a mangiare un cornetto, ma il bar era chiuso. Erano le tre di notte, ci scocciavamo di andare a casa, quando abbiamo visto passare quell'uomo davanti a noi. Sì ho partecipato anche io - dice - mi assumo la responsabilità di quanto avvenuto, anche se non ho mai colpito quell'uomo. Anzi. Quando l'ho visto cadere a terra, sotto i primi colpi, ho pensato che quell'uomo poteva essere mio padre. Ho detto: stiamo facendo una stronzata». Pianto e richiesta di perdono. Difeso dai penalisti Antonino Rendina e Diana Santucci, C.U. dice che non voleva ammazzare: «Abbiamo deciso tutti e tre di picchiare quell'uomo, io però non ho sferrato neppure un colpo». Accanto a lui il padre, operaio edile, mani rese callose da un lavoro che inizia alle cinque del mattino.

Terzo indagato, il 17enne L.C., quello dello spinello, il presunto capo, l'unico a non essere nuovo agli uffici di polizia locale. Cinque anni fa, quando aveva 12 anni, venne coinvolto in fatti di bullismo. Anche in questo caso piena ammissione, con un riferimento che chiama in causa un po' tutti: «Abbiamo deciso di picchiarlo e l'abbiamo fatto». Motivo? Attimi di silenzio, per la polizia non ci sono dubbi: rapinargli la pistola che da queste parti può fruttare fino a seicento euro, bottino discreto per chi passa la vita a giocare a «mazza e pietre». Tre amiconi i tre fermati, almeno a leggere i rispettivi profili facebook. C.U., il campioncino, chiarisce a tutti sul social che «un leone non si preoccupa del parere delle pecore», mentre non ha alcun imbarazzo a postare sul proprio profilo una foto di Riina, chiamato affettuosamente «zio Totò», quando si tratta di ribadire un concetto caro al capo dei capi: «Certe cose prima si fanno e poi si dicono». Immancabili sulle tre bacheche pose da duro, sguardi da macho, volti decisamente incazzati, come se ne sono visti tanti negli ultimi mesi, in quella orribile galleria umana che passa dal caso Arturo a quello di Gaetano, per approdare all'omicidio di un lavoratore «perché in fondo le notti non finiscono mai, alle tre le cornetterie sono chiuse, ed eravamo stanchi di fumare spinelli e giocare con le mazze e con le pietre».
 

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