Nicolais: «Ma indicare ai concorsi universitari non è raccomandare»

Nicolais: «Ma indicare ai concorsi universitari non è raccomandare»
di Francesco Pacifico
Martedì 26 Settembre 2017, 10:37 - Ultimo agg. 10:42
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Luigi Nicolais parte da una considerazione: «Prima o poi dovremmo chiederci se l'università deve essere un succedaneo della scuola media superiore oppure se è la fucina della classe dirigente del Paese, che ci rappresenterà all'estero. Invece in Italia un concorso vale un altro». Quindi l'ex ministro della Pubblica amministrazione ed ex presidente del Cnr, uno dei massimi esperti al mondo nella produzione dei materiali compositi, rivede nell'inchiesta di Firenze sulla concorsopoli nelle cattedre di diritto tributario una vicenda personale, che lo vede indagato a Napoli per abuso d'ufficio.

«Io non ho letto le carte dell'inchiesta di Firenze, ma sono stato vittima di un caso simile. Mi hanno accusato di aver raccomandato un mio allievo per una borsa di studio, quando ho semplicemente indicato un giovane ricercatore molto brillante a un altro mio ex allievo che aveva bandito un concorso. Devo dire che in America mi avrebbero scritto una lettera per dirmi grazie professore per averci indicato le capacità di questo candidato. Invece ci ho guadagnato un avviso di garanzia».

Professore, sta dicendo che nell'inchiesta di Firenze non intravede reati?
«Ripeto, non ho letto le carte, ma non credo ci siano reati. La magistratura vede in questi casi ingerenze esterne contrarie alle leggi, non tenendo conto della peculiarità del lavoro di professore universitario. Il problema, casomai, è che, con le leggi attuali, la selezione universitaria viene trattata con un concorso analogo a quello che si farebbe alle Poste. Anzi, magari fossero le Poste. Qui si trattano gli accademici come un qualunque dipendente pubblico».
Non le sembra un bene?
«Non lo è, perché queste forme di selezione prescindono totalmente dalla tipologia del professore universitario. All'estero, io ho insegnato all'University of Washington e all'University of Connecticut, quando si deve nominare un professore, associato o ordinario che sia, si procede soprattutto attraverso quelle che lì chiamano reccommendation, dove i massimi esperti del settore, i cosiddetti capiscuola, esprimono il loro giudizio sulle qualità del ricercatore che è in lizza».
Dov'è la terzietà?
«In America un professore, se sbaglia a dare credito a un candidato, perde la sua reputation, la sua credibilità».
Qual è la morale?
«Che da noi mancano i capiscuola. Spesso i titoli oggettivi non ci dicono se un docente sarà capace di creare un gruppo di lavoro e costruire a sua volta una scuola. Nel sistema anglosassone i concorsi per professori sono ad personam, nel senso che si cercano persone in base non solo alle loro capacità, ma anche alle esperienze fatte, alle scuole d'appartenenza e agli anni passati a contatto con un determinato maestro, il caposcuola».
Invece in Italia?
«Intanto c'è una legge, la Gelmini, nata per punire l'università e ridurre la sua autonomia. Si passa attraverso una serie di lunghe valutazioni: prima una nazionale, per l'abilitazione all'insegnamento, poi il concorso universitario aperto a tutti, anche a chi non è tagliato per quella determinata disciplina. Il tutto con tempi lunghissimi e senza poter chiamare, per esempio, qualcuno per chiara fama. In questo deficit si insinua la magistratura, che vede dappertutto ingerenze contrarie alle leggi, oppure giudica in un modo non sempre esatto la consulenza professionale. Nel mondo anglosassone, al riguardo, si richiedono ai docenti anche rapporti con le imprese».
Però il problema del nepotismo non è una fantasia. Non le pare?
«Questa è una deviazione del concetto di caposcuola. Ma un conto è cercare la deviazione per curarla, un altro è credere che chi si avvicina all'università, lo fa solo per trarne benefici personali. Così si butta solo il bambino con l'acqua sporca. Quando invece ci sono docenti che passano lì tutta la loro giornata anche a fronte di stipendi non adeguati».
All'estero non ci sono però 66mila ricercatori precari.
«È una questione della quale deve rispondere la politica di una ventina d'anni fa, che non ha voluto fare concorsi a sufficienza. Con il risultato che nella Ue soltanto la Grecia ha un numero più basso di ricercatori di noi. Il che crea altri due problemi».
Quali?
«Intanto un basso numero di ricercatori ci impedisce in ambito Ue di ottenere un adeguato livello di risorse per la ricerca. In secondo luogo, non è detto che uno, precario da dieci anni, sia il più adatto per un ruolo di insegnamento, perché le conoscenze si evolvono e le esperienze hanno un peso diverso. Non sempre l'età fa la differenza e le promozioni non possono scattare automaticamente».
Intanto i cervelli scappano.
«La priorità sarebbe recuperare quelli giovani e bravi che vanno via. Ma è impossibile farlo visti le modalità di selezione e i livelli remunerativi, per non parlare dei bassi investimenti nei laboratori. In queste condizioni riusciamo ad attirare soltanto gente vicina alla pensione o chi vuole tornare per avvicinarsi a casa. Noi non abbiamo bisogno di questa gente, ma di persone ambiziose che vogliano fare carriera».

 
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