Odissea soccorsi in Campania. Salmoiraghi: «Per gli elicotteri usate il modello Lombardia»

Odissea soccorsi in Campania. Salmoiraghi: «Per gli elicotteri usate il modello Lombardia»
di Maria Pirro
Martedì 29 Dicembre 2015, 09:27 - Ultimo agg. 09:48
5 Minuti di Lettura
In Campania trasportare un bimbo ferito in un incidente di caccia a Sapri è stata un’odissea perché nella provincia di Salerno mancano elicotteri e piste utilizzabili di notte; mentre in Lombardia il piccolo paziente sarebbe stato trasferito direttamente all’ospedale più attrezzato. «Qui la rete di assistenza è integrata - spiega Marco Salmoiraghi, direttore sanitario dell’Areu, l’azienda regionale di emergenza urgenza creata nel 2008 per promuovere il nuovo modello organizzativo di cura - Non più strutturata su base provinciale, ma omogenea su tutto il territorio. Di difficoltà logistiche, però, ha sofferto anche la Lombardia perché le normative nazionali fino all’anno scorso sono state molto restrittive nell’autorizzare l’atterraggio di notte e non tutte le realtà possono permettersi le elisuperfici per i costi notevoli, e anche i medici a volte conducono battaglie per tenere aperto l’ospedaletto sotto casa, ma se non ci sono numeri di prestazioni tali da giustificare reparti e organici, meglio attrezzarsi, fare venti chilometri in più e avere un centro specializzato».

Da voi com’è stato risolto il problema?
«Con l’entrata in vigore delle regole europee, l’elicottero nella notte può atterrare anche su aree illuminate diverse dalle elisuperfici del 118, in alcuni casi preventivamente visionate. Possono essere usati, ad esempio, i campetti di calcio: oltre dieci ne sono stati individuati in Lombardia e ancora di più in altre regioni come la Toscana e il Piemonte. Gli elicotteri finalmente atterrano, grazie a una spesa quasi nulla di allestimento: dai 4mila ai 6mila euro per ogni sito individuato. Naturalmente, l’ospedale di riferimento deve avere elisuperfici abilitate al volo notturno. Ma vorrei fare una precisazione preliminare».
Prego, quale?
«È sempre antipatico fare i primi della classe: non è che qui sia tutto perfetto. Io posso dire quello che si dovrebbe fare e cosa abbiamo cercato di fare noi per migliorare l’assistenza. La difficoltà non è solo campana. Faccio questo lavoro da 30 anni e solo nell’ultimo decennio si sta passando dalla teoria alla pratica. In alcune aree si è più avanti e in altre un po’ meno ma anche noi perfezionando l’organizzazione a rete».
La Lombardia è stata la prima regione a dotarsi di una cabina unica di regia per l’emergenza e urgenza, oggi istituita anche in altre realtà.
«Sì, questa azienda sanitaria gestisce tutte le attività del 118, ambulanze ed elicotteri: è stato positivo aver abolito i confini amministrativi e provinciali. Tutti i mezzi vengono indirizzati indipendentemente in funzione di due criteri: uno è la competenza, cioè qual è l’ospedale più specializzato per la patologia da trattare, l’altro è la distanza, scegliendo la struttura più vicina».
Con quali vantaggi?
«Avere un territorio regionale unico senza più confini provinciali ci ha consentito di standardizzare i comportamenti. Tutti i 10 milioni di residenti hanno lo stesso tipo di trattamento, possibilmente con lo standard più alto, su tutto il territorio regionale».
Puntare su standard più alti significa tagliare fuori i mini reparti e i piccoli ospedali.
«Un ulteriore passaggio in Lombardia è infatti stato quello di affiancare e sostenere la Regione nel definire ancora meglio il ruolo di ciascun ospedale che fa parte della rete di emergenza e urgenza, in funzione delle competenze previste al pronto soccorso, e quindi prevedere le reti di patologia in cui il fattore tempo nelle cure è fondamentale. Mi riferisco a malattie come l’infarto e l’ictus, i traumi maggiori(come nel caso del bimbo salernitano), e l’insufficienza respiratoria grave».
In questo caso, com’è strutturata la rete in Lombardia?
«Ci sono sei trauma center e il 118 deve avere queste strutture come riferimento prioritario e quindi portare lì i pazienti nel più breve tempo possibile».
Perché la priorità è trasportare l’ammalato nell’ospedale specializzato e non solo in quello più vicino?
«Per patologie complesse, si richiedono molte volte interventi interdisciplinari per cui non basta avere un solo specialista, e la prestazione è enormemente più efficace, se viene effettuata nel più breve tempo possibile. Mentre i dati dimostrano che, quando il paziente non arriva subito nel centro adeguato, l’organizzazione del trasferimento da ospedale all’altro mette a rischio l’esito della prestazione stessa e, con il passare dei minuti e delle ore, le condizioni cliniche tendono a complicarsi ulteriormente».
Funziona sempre così in Lombardia?
«Il piano non è ancora del tutto a regime anche in questa regione. Per riuscire ad attuarlo è decisivo il confronto con enti locali e popolazione».
Passa il messaggio?
«Per i punti nascita ormai tutta la popolazione, o gran parte, ha capito che, in quelle strutture al di sotto dei 500 parti all’anno, il rischio è più alto. Negli ultimi diciotto mesi ne sono stati chiusi tre ne restano un paio ma la gente si è già adeguata, e più in fretta di quanto pensassi».
Piccolo non è sempre sinonimo di negativo.
«Certo, i piccolo ospedali in alcuni territori disagiati devono restare aperti ma non devono più essere riferimento di patologie complesse».
In Lombardia sono state accorpate anche le centrali operative del 118.
«Si tratta di una scelta fatta da noi, assieme ad altre regioni come l’Emilia, poi entrata negli standard ospedalieri, che qui ha previsto 4 sale operative grandi, anziché 12 piccole. Complessivanente, vi lavora quasi lo stesso personale di prima, ma meglio organizzato e in grado di sostenere meglio i picchi di attività. In più, la razionalizzazione ha consentito un rinnovamento delle tecnologie che altrimenti non avremmo potuto realizzare. Le resistenze sono state superate con dialogo e fermezza, spiegando le ragioni obiettive di una scelta non politica, ma tecnica».
 
© RIPRODUZIONE RISERVATA