Il bene (e il male) sotto la Pelle di Napoli | Video

Il bene (e il male) sotto la Pelle di Napoli | Video
di Titti Marrone
Venerdì 27 Maggio 2016, 08:30 - Ultimo agg. 19:49
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Provate: poche righe e siete risucchiati nella pagina, trascinati nel mezzo dei commerci multietnici di Porta Nolana, raggiunti dalle zaffate di olio fritto dell’Anticaglia, stregati dal concerto spontaneo sgorgato dai negozi di musica di San Sebastiano: vista, olfatto, udito, gusto, tatto, siete lì con tutti i sensi sollecitati. Avete appena cominciato a leggere «La pelle di Napoli» (Cairo, pagg. 273, euro15) e a ogni pagina cresce la sensazione di essere al fianco del suo autore, Pietro Treccagnoli, in cammino con lui tra cupole barocche puntate verso il cielo «come mammelle», fondaci scuri e vicoli affollati di sacro e profano, «pane quotidiano ... della Napoli devota alla vita». A passo di reportage, vi state inoltrando in «questa città che tutti s'illudono di conoscere ma poco conoscono, quasi nessuno interroga e nessuna canzone riesce più a mettere in nota o in versi». Ma la scrittura - questa scrittura - sì che riesce a schiudere un nuovo territorio, letterario e giornalistico e sociale e antropologico. E fa dell'altro: mostra Napoli senza aderire al conformismo sull'epos del male con location privilegiata nella città. La svela senza mai cedere a sbavature oleografiche e in più schivando anche il canone di convenzionalità del camorrismo, ormai più simile a una gabbia, o a una caricatura, che a una denuncia. Per riuscire in questo, c'è stato bisogno di mettersi in cammino, sporcarsi le scarpe con il fango o la polvere aggrumati nei selciati divelti delle strade. Di scarpinare perché, come dice Pietro, «i piedi sono sempre gli occhi migliori per chi vuol conoscere e capire».
 



Soprattutto i luoghi che abitiamo, che crediamo di conoscere, meritano conoscenza, comprensione. Perché possa esserci amore.Questo libro e questa scrittura hanno una storia nata nella redazione del Mattino: l'idea di affidare a un cronista rabdomantico un insieme di reportage sui quartieri della città. Via via i reportage sono cresciuti, sono diventati materia narrativa complessa, pezzi letterari capaci di portare il lettore nel fuoco della città. L'osservazione del reale si è dilatata diventando sentimento dei processi in atto, dei luoghi e delle persone. Da cui lasciar germinare storie significanti, raccolte e accolte da Treccagnoli con attenzione e rispetto per l'umano, senza attitudine giudicante.Così ai luoghi si sono impigliate le «voci di una città senza tempo» richiamate nel sottotitolo. Specialmente quelle degli «ultimi, i disperati, gli invisibili». Gli ucraini della Sanità, i cingalesi del Cavone, gli africani della Ferrovia, i cinesi di Gianturco. I nuovi diseredati cui null'altro rimane se non la lotta per salvare non l'anima o l'onore o la libertà ma, come direbbe Malaparte, la «schifosa pelle». E la pelle di Napoli qui si mostra come «lo schermo dove tutto il bene e tutto il male si riflettono», cangiante come il paesaggio umano di una città in moto perpetuo dove i femminielli fraternizzano con le puttane maghrebine ossigenate. Dove i rifiuti conoscono infiniti corsi e ricorsi grazie ai rom insinuati nei cassonetti per estrarne oggetti poi venduti nei mercatini dei poverissimi.L'occhio penetra oltre i dettagli, scova i residui del passato, i cambiamenti che increspano la pelle della città in mutazioni ancora in fieri.

Lo sguardo mobile, mai fermo sulla superficie delle cose, coglie la nostalgia per il contrabbando e per l'economia delle «bionde» di una vecchia al Pallonetto. Scopre la solitudine preziosa del barbone ricoverato in una caverna sul Monte Echia con i libri di Freud su una mensola infilata nel tufo. Dettagli di un documentarismo narrativo arricchito dai rimandi alla grande letteratura di e su Napoli, qui tutta mobilitata e chiamata a confrontare le visioni di ieri con le nuove realtà da interrogare.La scrittura è un vero punto di forza. È personalissima e del tutto originale per il ricorso a espressioni gergali in lingua napoletana fitte come ricami intrecciati al filo narrativo principale. Questo conferisce energia alla pagina introducendovi, in funzione di alleggerimento o a volte d'ironico controcanto, parole di uso comune o altre meno note: come la «scaienza», che sta per sfortuna, disgrazia, ma anche spreco, o le «céveze», le gelse, street food un tempo venduto in coppetti di carta di giornale.

Poi, dappertutto, le «zelle». In italiano «zone di alopecia, dove i capelli sono più radi». Le «zelle» dilagano nella prosa di Treccagnoli fino a comporre una sorta di poetica rovesciata. Sono le buche delle strade dilatate in fossi, i palazzi secenteschi scrostati, gli arbusti aggrovigliati ai cumuli di rifiuti abbandonati in strada, i vetri rotti sostituiti dalle plastiche. E sono i cattivi pensieri, le incurie private, le inadempienze pubbliche. Sono metafora del lazzaronismo postmoderno di una città di bellezza abbagliante, tradita da diavoli-abitanti e da angeli fittizi. Alla fine l'autore scrive: «piace pensare che la bellezza salverà Napoli». Come a dire, piacerebbe, ma poi chissà come andrà. Dipende da noi.«La pelle di Napoli» sarà presentato oggi alle 18 alla Feltrinelli dal direttore del Mattino Alessandro Barbano, dal presidente dell'Autorità anticorruzione Raffaele Cantone e dal presidente dell'Ordine regionale dei giornalisti Ottavio Lucarelli. Martedì 31 alle 18 verrà presentato al Vomero alla libreria Iocisto.