Perché i «non so»
non bastano più

di V​ittorio Del Tufo
Mercoledì 22 Febbraio 2017, 23:50 - Ultimo agg. 23 Febbraio, 08:10
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È passato un mese da quando lo scandalo dei candidati fantasma è franato come una slavina sul già traballante Pd napoletano e su Valeria Valente, la candidata schierata da quel partito nel tentativo (fallito) di soffiare la poltrona di sindaco a De Magistris. A distanza di un mese ne sappiamo ancora pochissimo. Gli interrogatori ai quali sono stati sottoposti i protagonisti dell’affaire - dai presentatori di lista ai tre consiglieri che hanno autenticato le candidature, dalla stessa Valente al suo compagno Gennaro Mola, organizzatore della campagna elettorale - hanno prodotto finora un numero impressionante di «non so» e «non ricordo», di «non c’ero» e di «c’ero ma non mi sono accorto di nulla». Un singolare e collettivo vuoto di memoria, ma soprattutto un rimpallo di responsabilità che consegna all’opinione pubblica l’immagine di un partito surreale, marziano, opaco, estraneo al mondo e poco presente a se stesso. Tocca alla magistratura, ovviamente, fare chiarezza su quanto accaduto. Ma a distanza di un mese dallo scandalo scoperto e raccontato dal Mattino crediamo che sia legittimo pretendere, da tutti i protagonisti della vicenda, qualcosa in più di questa prolungata amnesia.

È normale che un intero partito non sappia? È tollerabile che a distanza di un mese nessuno sia riuscito a rispondere alle domande del primo giorno? Quegli interrogativi restano intatti, dal momento che la procedura di selezione dei candidati è soggetta a regole certe. Chi si è procurato i documenti delle persone inserite in lista senza il loro consenso? E in che modo? Come sono finite le carte di identità allegate alle candidature nelle mani dei collaboratori della Valente? Da quale banca dati sono state sottratte? Com’è possibile che nessuno del comitato della Valente abbia conservato le fotocopie dei documenti? Tutte queste carte di identità possono improvvisamente cadere dal cielo? La Valente, che si è dichiarata fin dal primo giorno vittima del pasticcio (e probabilmente lo è stata per davvero) intende restare una vittima o ha intenzione di tirarsi fuori dall’angolo in cui si è cacciata? 

Si è fatta o no un’idea di quello che è accaduto? Ha svolto un’indagine accurata per accertare la verità, per pretenderla dai suoi collaboratori e per stanare i suoi traditori, se traditori ci sono stati? Intende farlo o intende, viceversa, accontentarsi di questo florilegio di «non so» e «non ricordo»? E il segretario provinciale del Pd Venanzio Carpentieri, oltre a «mettere due mani sul fuoco sull’estraneità di Valeria Valente», ritiene di dover assumere qualche responsabilità in questa brutta vicenda o gli basta recitare la parte di chi cade dal pero, vecchio trucchetto per scansare i fossi, sostenendo che «non c’è responsabilità del Pd come struttura, perché nessuno ha presidiato quelle liste»? 
E il segretario regionale Assunta Tartaglione, che in un’intervista al Mattino aveva ammesso che il partito non può defilarsi dallo scandalo, e che bisognava «chiedere scusa» ai cittadini, intende battere un colpo che sia uno? Ha disposto un’indagine interna per accertare come sono andate veramente le cose? Queste generiche «scuse» rischiano di essere piuttosto vaghe e inconcludenti, se la verità continua a restare ostaggio dei non c’ero e dei se c’ero dormivo. È o non è un problema anche del segretario regionale del Pd?

Un partito, grande o piccolo che sia, non può diventare il luogo dove la polvere viene pervicacemente nascosta sotto il tappeto, nella stessa misura in cui non può restare in eterno ostaggio di veleni, sospetti e amnesie. La fuga dalle responsabilità, la tentazione di schivare i colpi e di rimbalzarli sugli altri, meglio se si tratta di avversari interni, non solo non fa avanzare di un solo passo l’accertamento della verità ma esprime una concezione talmente poco nobile della politica da autorizzare la richiesta di una bonifica totale, di un azzeramento dei suoi quadri dirigenti e di tutti - ma proprio tutti - i protagonisti di questa storiaccia. La cui permanenza nei rispettivi ruoli è, a fronte di tali e tanti imbarazzati silenzi, del tutto incompatibile con la gestione trasparente di una vicenda opaca e squallidissima.

Nei primi giorni, dopo l’esplosione dello scandalo, avevamo sperato di trovarci di fronte alla scalcinata trama di una commedia un po’ surreale, a un film del genere «Totò, Peppino e il candidato fantasma», ma a un mese di distanza di surreale c’è solo il silenzio dei protagonisti. È un silenzio che lascia - anche al di là dei doverosi accertamenti giudiziari - una sensazione di amaro in bocca a quanti pensavano e continuano a pensare che la politica, soprattutto nei suoi aspetti organizzativi, possa fare a meno dei comitati d’affari e dei faccendieri che troppo spesso la inquinano
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