Quell’infanzia derubata
che lo Stato non restituisce

di Diego De Silva
Mercoledì 18 Gennaio 2017, 08:06 - Ultimo agg. 08:07
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 Una costante che emerge dagli aggiornamenti dello stato della delinquenza minorile offerto dalle cronache (e che sul piano simbolico fa inorridire anche il lettore più distratto), è quella di una tendenza al ribasso dell’età dei bambini variamente occupati nell’Azienda Crimine. Sono sempre più piccoli, sempre più acquisiti, invischiati, plasmati, compromessi e derubati dell’infanzia. Soprattutto, sono sempre di più. Non ci sono soltanto le vedette, i baby pusher, i baby scippatori, i baby killer, i baby boss e chi più ha baby più ne metta. La filiera dello spaccio, per esempio, come dimostra l’inchiesta di Pizzofalcone, coinvolge anche bambine di otto anni addette al packaging delle dosi da destinare al dettaglio e dodicenni incaricati delle operazioni di consegna, un po’ come i ragazzini di Just Eat che ti portano la cena a casa (chissà se l’imprenditore o il professionista danaroso che ordina la coca a domicilio lascia la mancia al ragazzino che gliela consegna o gli passa i soldi contati dallo spiraglio della porta socchiusa).

Provate a figurarvi la scena di una bambina in un sottoscala, nell’atto di confezionare una dose di cocaina o una stecca di fumo come fosse una merce qualsiasi, magari mentre canticchia in punta di labbra una canzone trasmessa in sottofondo da un Mp3. Immaginatevi lo sguardo, il sorriso, la naturalezza con cui svolge il suo compito. La sequenza neorealista che vi apparirà sullo schermo virtuale della mente vi trasmetterà la vergogna civile di vedere un essere umano di otto anni al lavoro, a prescindere dalla specificità del prodotto che sta confezionando con mani piccole e goffe ma già segnate ed esperte, sì che la disinvoltura con cui la vedrete partecipare al processo di trasformazione e di commercializzazione di quella merce vi lascerà inorriditi due volte al pensiero che quella è la normalità in cui quella bambina è destinata a crescere e diventare se stessa, formarsi, fare le esperienze che le insegneranno a stare al mondo.

La vita che conduce, il compito che svolge, il tempo che perde e sottrae all’essere felice, giocare, leggere, studiare; le parole che ascolta e a sua volta ripete e impara, i soldi che guadagna, l’organizzazione gerarchica in cui il suo contributo è iscritto, le trasmettono un’informazione essenziale: questo è il tuo Stato, lo Stato che ti dà da lavorare, da vivere e da morire, questo è lo stato in cui ti trovi. Il compito che abbiamo per non fallire definitivamente come società è diffondere l’informazione esattamente opposta, fare in modo che a questo esercito di soldatini, manovali e manifatturieri di camorra arrivi il suono di una voce chiara e forte che dica: «Esci dallo stato in cui ti trovi, non è questo lo stato che ti spettava. Per te c’era di meglio, vai e riprenditelo».

Ma questo, ovviamente, sarebbe lavoro della politica.
E se la politica non fa questo, se non scommette su investimenti culturali poderosi, se non si attrezza a combattere questa battaglia civile con la stessa dedizione che userebbe per allestire una città per ospitare un’olimpiade, allora si limiterà ad amministrare l’ordinario (male, peraltro) e a mandare qualcuno dei suoi (non necessariamente i migliori) a fare un po’ di telepromozione nei talk show.
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