Roberti: «Beni confiscati e non assegnati?
Venduti o concessi ai senzatetto»

Roberti: «Beni confiscati e non assegnati? Venduti o concessi ai senzatetto»
di Giuseppe Crimaldi
Martedì 28 Febbraio 2017, 08:34
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«Fino a quando in Italia i beni confiscati alle mafie non verranno considerati come una risorsa, la situazione resterà quella che è sotto gli occhi di tutti. Abbiamo già perso molto, troppo tempo: adesso serve un cambio di passo concreto. Per questo ritengo che sia arrivato il momento di prendere in considerazione anche l'alienazione dei beni». Il procuratore nazionale antimafia Franco Roberti invoca un salto di qualità, «una nuova filosofia» capace di rendere operativi e concreti i successi messi a segno dalle indagini giudiziarie contro i patrimoni illeciti della criminalità organizzata. «L'inchiesta del Mattino - dice - ha lucidamente evidenziato una situazione spesso drammatica e non più sostenibile nella quale malagestione e criticità dettate dalla lunghezza dei tempi non aiutano a realizzare l'obiettivo che la legge sulla destinazione dei beni confiscati si proponeva».

Da dove cominciamo?
«Facciamo una premessa: il quadro complessivo evidenziato dalla vostra inchiesta riflette purtroppo la realtà. Mette in luce aspetti di cattiva gestione, anche se va detto che la recente esperienza ha dimostrato anche molti casi virtuosi. Scontiamo gli errori del passato: si pensi che la legge sulla destinazione dei beni confiscati è del 1996, e per arrivare al varo dell'Agenzia nazionale per i beni confiscati abbiamo dovuto attendere 14 anni».
E che cosa è successo dal 96 al 2010?
«La materia fu affidata all'Agenzia del Demanio, che si occupava e continua a occuparsi di tutti i beni che vengono acquisiti al patrimonio dello Stato. Già questo fu un errore, dal momento che i beni sottratti ai mafiosi presentano specificità e problematiche negative, violando spesso normative urbanistiche e configurando ipotesi di occupazioni abusive. Un errore strategico che ha prodotto effetti deleteri. Per 14 anni il Demanio ha affrontato una materia delicatissima con strumenti più che scarsi. E gli effetti li scontiamo ancora oggi».
In che senso?
«Nella vostra inchiesta avete fatto riferimento a un bene confiscato a Napoli: quello di vico Pace, a Forcella».
E allora?
«Pensate che di quello stesso appartamento, oggi ormai inutilizzabile perché fatiscente, mi occupai nel 2003 - quando a Napoli in Procura avevo la delega all'Antiterrorismo - nel corso di un'inchiesta su un gruppo di pakistani sospettati di organizzare un attentato alla Nato di Bagnoli. L'indagine rivelò che gli extracomunitari erano ospiti dei Giuliano, avendo da loro preso in locazione l'abitazione, nonostante quel bene fosse stato già sottoposto a sequestro da ben dieci anni. Nessuno si era preso la briga di controllare, di verificare e di impedire che il bene fosse ancora utilizzato».
Come andò a finire?
«Con l'allora procuratore Cordova decidemmo di iniziare un monitoraggio. Una ricognizione dei beni non gestiti».
Dieci anni di vuoto. Assurdo.
«Per questo continuo a credere che in materia di sequestri e confische di beni alle mafie la tempestività sia fondamentale».
Ma a chi tocca il controllo della gestione dei beni confiscati?
«Innanzitutto all'amministratore giudiziario, poi alla Agenzia che affida attraverso lo strumento della manifestazione d'interesse il bene all'ente pubblico, e infine all'associazione aggiudicataria del bando. Purtroppo spesso ci troviamo di fronte a associazioni che dopo essersi aggiudicate l'immobile non hanno i fondi per gestirlo».
Nessun responsabile, tutti responsabili?
«No. Basterebbe far funzionare gli strumenti previsti dalla legge: l'Agenzia e i nuclei territoriali di supporto istituiti presso le Prefetture, previsti dal codice antimafia vigente. Peccato che non siano mai decollati... Invece tocca a loro censire i beni, individuare gli obiettivi, valutare le finalità e magari anche la messa a disposizione di risorse finanziarie che quel bene richiede».
Le risorse, appunto. Le onlus affidatarie spesso non hanno nemmeno i soldi per realizzare i progetti.
«È vero. Anche a noi risulta che ci sono tante associazioni validissime, ma che poi per vari motivi, dopo l'aggiudicazione, restano al palo perché non dispongono degli strumenti economici per gestire le strutture, per manutenerle, per organizzare le iniziative».
Insomma, la gestione dei beni confiscati alle mafie richiama all'immagine di un cane che si morde la coda...
«No, anzi. Penso che si debba uscire dalla metafora della circolarità, che non porta a niente. Non è così. E i fatti lo dimostrano: quando si vuole si ottengono anche ottimi risultati. Solo un anno fa siamo riusciti a fare un altro miracolo, questa volta al Nord: riuscendo a destinare il castello di Miasino, sul lago d'Orta, appartenuto al boss Pasquale Galasso, alla Regione Piemonte. L'iter è stato lungo, ma ci siamo riusciti, anche se sappiamo bene che i costi di gestione saranno molto alti».
In commissione Giustizia del Senato è ferma ormai da un anno la legge che dovrebbe riformare l'Agenzia nazionale per i beni confiscati e le sue competenze. Che cosa dovrebbe prevedere questa legge?
«I beni sottratti alla mafia sono una risorsa. Se non entriamo in questa logica non andiamo da nessuna parte. Per questo motivo credo che non sia più un tabù auspicarne anche l'alienazione. La vendita. Perché alla fine, laddove anche i più seri tentativi di destinare il bene a fini sociali non dovessero andare in porto, allora è meglio venderli».
Lei sa bene che su questo punto c'è chi contesta l'ipotesi di mettere all'asta case e terreni appartenuti ai boss della criminalità organizzata.
«Sono contestazioni che non capisco. Quando non ci sono alternative i beni devono essere venduti. E a chi si oppone dicendo che esiste il rischio che tornino alle mafie rispondo che si deve vigilare e - ove mai poi risultasse che quel bene è stato attirato nuovamente a un patrimonio illecito - la magistratura interviene ancora e lo sequestra ancora. Vigilare sulle vendite dei beni è ovviamente un atto dovuto. Poi, al di là delle alienazioni, ci sono anche delle alternative da prendere in considerazione».
Quali?
«I beni, intesi come appartamenti e immobili, possono essere destinati ai senzatetto. Un obiettivo che - soprattutto in realtà che vivono drammaticamente l'emergenza casa come Napoli e Palermo - risponderebbe perfettamente alle finalità sociali. Lo scorso anno partecipai a un convegno di Psichiatria democratica nel quale si lanciò la proposta, che condivido».
E sul ruolo dell'Agenzia nazionale qual è la sua opinione?
«Per realizzare tutto quello che serve occorre una buona legge e un'Agenzia nazionale forte e pienamente operativa, come prevede il codice di riforma che giace da un anno al Senato».