Quel termine - bravata - non viene utilizzato certo per giustificare l’omicidio, ma per descrivere la «scomposta azione dimostrativa» di De Santis che volle affrontare i tifosi azzurri. E che, dopo averli affrontati come uno spaccone in vena di sceneggiate, avrebbe tirato il grilletto, esplodendo più colpi in rapida successione, dopo essere stato colpito da Ciro «con un pugno alla testa, mentre era già in fuga».
Una bravata è una bravata, un omicidio è un omicidio e una sentenza è una sentenza. Quella, di appello, della prima corte d’Assise di Roma riscrive completamente la verità giudiziaria su una tragedia che ha toccato il sangue vivo di un’intera città. E riapre una ferita che non ha mai smesso, certo, di sanguinare, ma che sembrava parzialmente lenita da una giustizia riparatrice. Oggi l’immagine di Ciro viene sporcata, l’aggredito diventa aggressore e questo cozza con tutte le ricostruzioni fin qui fornite.
Una diversa qualificazione giuridica del reato tra primo e secondo grado ci può stare; ciò che sorprende, e non poco, è il ribaltamento totale della ricostruzione dei fatti.
Nessun raid, nessun agguato premeditato, nessun complice per «Gastone» De Santis. E nessuna traccia dei botti, delle bombe carta e dei sassi con i quali sarebbero stati bersagliati i napoletani. Ma è soprattutto l’immagine di Ciro Esposito che da vittima diventa provocatore a cozza con tutte le ricostruzioni fatte in sede investigativa e fin qui note. E con la memoria che la famiglia, e una città intera, hanno il diritto di difendere.