Eroe Anatolij, condannati i tre killer
«La figlia piccola non dimentica
​Ogni sera bacia la sua foto»

Eroe Anatolij, condannati i tre killer «La figlia piccola non dimentica Ogni sera bacia la sua foto»
di Raffaella R. Ferré
Sabato 24 Settembre 2016, 00:59 - Ultimo agg. 16:05
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«Non voglio dire nulla, non sono io il giudice. Non posso sapere se è giusto così o no. Magari chi ha deciso ha ragione». Nadiya Korol parla lentamente. La sentenza di primo grado che condanna a vent’anni Marco Di Lorenzo e il fratellastro Gianluca Ianuale, i due giovani assassini di suo marito Anatolij, le arriva come il colpo di coda di qualcosa che è già successo, in un tempo lontano, in un altro mondo, un anno e quasi un mese fa. Anche i complici dei due sono stati giudicati colpevoli: la condanna che sconteranno è venti anni per Emiliano Esposito, e tre anni e quattro mesi a Mario Ischero. «Ma questo - dice Nadiya, con il tono di chi accetta la vita come si accetta un temporale - non mi fa sentire più tranquilla, no. Per me non è che cambia qualcosa». 

La vita di Nadiya, infatti, è già cambiata: il 29 agosto del 2015, sabato, alle sette e mezza di sera. A Castello di Cisterna, suo marito, Anatolij Korol, muratore ucraino di 38 anni, stava facendo la spesa con la figlia più piccola. I suoi ultimi istanti di vita li abbiamo visti tutti, al telegiornale: c’è la luce chiara del giorno che non è ancora finito, ci sono due uomini che fanno irruzione nel supermercato coi caschi ben calcati sulla testa e una pistola, c’è Anatolij che è già fuori, una busta nella mano, i sandali ai piedi e nessuna idea di star per finire nel brulicante sottogenere di storie e notizie da cronaca nera. Ma non esita: come se sapesse esattamente cosa c’è da fare, lascia la bambina, rientra nel market della catena «Piccolo» da cui altri scappano, poggia la busta in un angolo, scansa un carrello e a passo deciso si getta contro uno dei rapinatori: lottano, finiscono a terra. La colluttazione nel video dura poco meno di trenta secondi: le ultime immagini sono un compendio sull’eterna lotta tra il bene e il male, tra il chiaro della maglietta e dei pantaloncini di Anatolij che resta sul pavimento colpito a morte e il nero dei giubbotti da motociclista che s’allontanano e spariscono. 

Oggi l’entrata di quel supermarket non esiste più: cambiata, rimodernata, messa al passo con le necessità di sicurezza e di ritorno alla vita. Ma Nadiya, sua moglie, quella che nelle foto di quel sabato piange e urla piegata sulle ginocchia: a lei, da allora, spettano compiti difficilissimi. Ricordare e dimenticare, assieme. Andare avanti e non pensare. Ricevere la Medaglia d’oro al Valor civile in memoria di suo marito dalle mani del Presidente della Repubblica e indossare camice e cuffietta, prender posto al banco dei prodotti da forno della sede principale dei supermercati «Piccolo», a Sant’Anastasia, comune dell’entroterra vesuviano. Sorridere ai clienti, commessa proprio come quelle che suo marito ha cercato di aiutare. 

Quando l’ho incontrata l’ho sentita indugiare sulla porta, restarci qualche secondo più del dovuto quasi dovesse attraversare un confine. Poi, come se il suo nome fosse stato tirato fuori da un appello, ha tirato un sospiro ed è entrata. Aveva l’aria di chi pensa: «Va bene, facciamolo. Parliamo di quello che è successo», ma quando mi si è seduta davanti non ha detto niente. Porta una cuffietta bianca e ha occhi grandi, non so decidere se azzurri o grigi. Potrebbero benissimo anche esser scuri, il colore che vedo solo acqua. Quando una goccia tracima, lei la lascia andare e forse è perché lavora tra la farina, ma ha addosso la polvere quieta e pesante, bianca, di un paese raso al suolo in una sola notte. Solo quando il nostro incontro finirà, mi pentirò di non averle guardato per bene le mani. Ricorderò che sembravano tenere nel palmo un passerotto con l’ala spezzata ma non saprò dire, ad esempio, come son fatte: le unghie, curate o no? Le dita lunghe o piccole e tenere? Eppure gliele ho strette, allungando le mie sopra il tavolo che ci separa. A molti non sembrerà importante, mi dico, se non so dire delle sue mani. Erano vuote, dopotutto. Ma sarebbe più giusto dire che hanno preso la forma degli eventi. In quello spazio fondo come un piatto c’è il viso che non si può più accarezzare, la mano che non si può più tenere stretta. In quello spazio, c’è Anatolij. 
Nadiya oggi si occupa del pane, di due figlie e di se stessa e se le chiedi: «C’è qualcosa di buono, nella tua vita, oggi?», non ti guarda male. Ti risponde che se non c’è più un marito, allora c’è un padre, a cui guardare con riconoscenza: Michele Piccolo, il proprietario della catena di store che ha mantenuto la parola e le ha dato un lavoro. «È una persona buona, di cuore. Ad Anatolij sarebbe piaciuto. Molto».

La voce bassa e calma, come se si stesse confessando. Gli occhi che si annacquano tutte le volte che una mia domanda la fa pensare troppo al futuro: «Non lo so come devo raccontare questa storia. Non so di preciso cosa. So che ci provo. La bambina più piccola non dimentica: ogni giorno, ogni sera, bacia la sua foto». Potresti mostrarle la Medaglia, dico, e non capisco che sarebbe come mostrare un livido: «Non posso. È un segreto. Magari un giorno. Adesso non è necessario, è troppo presto, fa male. Nessuno mi ha abbandonato, però è doloroso». 

L’impegno di Nadiya a star bene sembra essere una questione di principio, coraggio e dignità, cose a cui non siamo più abituati. I nostri dolori sembrano essere solo delle giustificazioni a margine dei nostri sbagli, i suoi no. «Sono stata sempre bene: un matrimonio di quindici anni, due figlie. Era il periodo più luminoso della mia vita. Sono nata in una buona famiglia, ma con Anatolij ero così felice. Anche se quando siamo arrivati qui non conoscevamo la lingua, ci eravamo subito sentiti in famiglia. Lavoravo. Ho lavorato sempre, sono stata a casa sette mesi quando è nata la mia seconda bambina e poi basta».

Sorride e i tempi verbali incespicano nella corsa che fa ogni giorno da ciò che ha alle spalle a quello che ha davanti e da capo: «È un gran lavoratore, mio marito! Anche se non mi faceva mancare nulla, mi dispiaceva per lui, volevo aiutarlo.

Il nostro è un grande amore». Nella figlia più grande, quasi sedici anni, Nadiya lo ritrova: «Lei me lo ricorda tanto: è una ragazza seria, di poche parole, oh, ma vede qualcosa nel suo futuro. Studia. Non so dire se resterà qui: per il momento è quello che vuole, ma la nostra vita ormai è fatta così: non sappiamo quello che può succedere». Ha ragione, eccome, ma non glielo dico perché alle volte fa bene credere il contrario. Lei continua: «Nessuno può dire cosa succederà o perché è successo qualcosa. A noi va così, è andata così. Vedi, quella sera di un anno fa, per come era fatto lui... Anatolij sin da piccolo è sempre stato una persona per bene, a cui piaceva la giustizia, non le cose sbagliate. È andata così». Una lacrima, una sola, scivola fuori facendole gli occhi più chiari, grigi o azzurri, non so decidere. Allungo la mano sul tavolo, stringo la sua. Mi pentirò di non averle guardato le unghie, le dita, di non sapere se portava un anello. «È andata così - ripete -. Io non ci posso credere. Lo sai? - domanda e si guarda i palmi vuoti - Io non ci posso ancora credere». 

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