Quei giganti in bronzo ripercorrono il cammino della storia

Quei giganti in bronzo ripercorrono il cammino della storia
di Alessandra Pacelli
Sabato 14 Maggio 2016, 09:36
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È il tempo dell'ignoto quello che innescano le monumentali sculture di Igor Mitoraj, un tempo sospeso che mette in scena quel che resta del mito, con la classicità fatta a pezzi. E la meraviglia di Pompei a fare da quinta teatrale, a contenere un'inedita osmosi tra archeologia e contemporaneità che si snoda tra Foro, Terme, Teatri, Templi e Mercati. Lo stupore per queste gigantesche sculture - che pure sono ispirate alla statuaria della Grecia classica - è proprio dato dal loro essere fuori scala rispetto a un contesto anch'esso indiscutibilmente maestoso: incarnano un'ipotetica caduta degli dei, un presunto scollamento tra divino e umano.

Enormi creature alate senza testa, torsi distesi in un'idea di spasimo sofferto, frammenti di teste femminili corrose da un'età che non è la loro e che, citando il passato, mettono in crisi l'idea stessa di arte contemporanea. Sono apparizioni dell'assurdo, figure che hanno oltrepassato una soglia temporale e compaiono come ospiti inattesi, una sorta di memento mori. Come se qualcosa di irreparabile potesse ancora accadere. L'artista polacco - morto settantenne nel 2014 - riproponendo all'attualità un'idea di bellezza del passato, quindi fintamente sfregiata dal tempo, ripercorreva il cammino della storia, saldava tra loro i secoli, dava forma al desiderio creativo che ha messo in moto l'intelligenza umana.

E allo stesso modo ha dato voce a un ancestrale bisogno di entrare in territori arcaici e magici, che legano il paganesimo alla mitologia e alla ricerca di un senso dell'eroico che finalmente si palesi. Ed ecco allora un centauro, un Icaro alato, ma anche un volto di donna fasciato di bende come in un sudario, un corpo maschile che contiene altri corpi in finestre scavate nella propria carne. Il bronzo, il ferro, la straordinaria duttilità del metallo forgiato che si piega al volere dell'artista-demiurgo, infatti, qui diviene vera e propria carne: ne porta le possibili ferite, ne esalta le muscolature, ne contiene le tensioni nervose. E la possibilità di bellezza trova nuovo spazio, anche se rappresenta la vita che collassa, lo sperdimento della rivelazione. E Pompei, nella sua unicità, se ne arricchisce, fa sue queste sculture e le ingloba nel contesto: un po' le ridimensiona e un po' le esalta nella lunghezza di uno sguardo che abbraccia tutta la memoria di questa città distrutta duemila anni fa e del Vesuvio imperante che la sovrasta.