Carlo Buccirosso e I Promessi Sposi: «Il mio Don Rodrigo usuraio e stalker»

Carlo Buccirosso e I Promessi Sposi: «Il mio Don Rodrigo usuraio e stalker»
di Luciano Giannini
Domenica 20 Dicembre 2015, 11:07
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«Il mio Don Rodrigo, usuraio dell’entroterra campano trapiantato sul Lago di Como, è un cattivo che non fa paura a nessuno, pur se infastidisce Lucia... Oggi sarebbe colpevole di stalking; anche i bravi sembrano i cattivi di “Mamma ho perso l’aereo”. Renzo è un fanciullotto irascibile; Lucia non ne parliamo, ingenua e capricciosa fino all’imbarazzo, tanto da far diventare isterica la povera Agnese, sua madre. L’Innominato è il Padrino per eccellenza, che dà i soldi a Don Rodrigo perché li presti a tassi da strozzinaggio. Chi altro resta... ah, Don Abbondio, il più simile all’originale; e Perpetua, che vende anche le mutande per una manciata di monete. Allora, come oggi, il danaro è tutto».

Con la maturità accumulata nei nove anni trascorsi dalla prima edizione, Carlo Buccirosso ha riscritto la propria riscrittura dei «Promessi Sposi», che oggi diventano «Il divorzio dei Compromessi Sposi», spettacolo natalizio del teatro Diana, in programma a Napoli da domani all’11 gennaio e per altre due settimane ad aprile. In scena ci sono nove attori, otto ballerini, coreografie, musiche, diciassette canzoni famose adattate con nuovi testi, nove dialetti parlati dai personaggi per una commedia che vede in campo, tra gli altri, Rosalia Porcaro nel ruolo di Agnese e Peppe Miale in quello dell’Innominato.

Gino Monteleone è Don Abbondio, Antonio Pennarella e Giuseppe Ansaldo i Bravi. Buccirosso, quanto cambia questa versione?
«Sono nuovi il cast, il corpo di ballo, le canzoni e anche il copione. Io faccio teatro con il cuore, non studio a tavolino come far danaro».

Perché proprio «I Promessi Sposi»?
«Ai tempi della scuola mi perdevo in quel romanzo immenso, dai mille rivoli, ma dalla storia semplice. Anzi, semplicissima: due ragazzi desiderano sposarsi, ma c’è un terzo incomodo che vuole impedirlo al grido: “Questo matrimonio non s’ha da fare”. Così, l’ho riscritto per renderlo più leggero, ispirato dalla “Biblioteca di Studio uno”, e cioè da quel gruppo fenomenale che era il Quartetto Cetra. Loro, però, le parodie dei romanzi più celebri le cantavano quasi totalmente, noi no. Il mio spettacolo è recitato al 65-70 per cento, il resto è musica».

Quali canzoni ha scelto?
«Melodie famose come “Il Triangolo”, “Nessuno mi può giudicare”, “Tammurriata nera”, “Dicitencello vuie”, “Funiculì fumiculà”, con i testi riscritti in chiave satirico-farsesca adeguandoli alla storia, e le musiche eseguite su strumenti classici come il clavicembalo, l’arpa, il flauto. Più che un musical o una commedia musicale, “Il divorzio dei Compromessi Sposi” sembra quasi un’operetta dalle molte lingue».

Quali?
«L’Innominato parla il siciliano, Perpetua veneto, ma ci sono il napoletano, ovviamente, e il pugliese, il bergamasco, il calabrese, il bolognese, il milanese. E poi i giochi lessicali. I personaggi parlano di divorzio, minigonna e microchip, meravigliandosi che qualcuno le pronunci, perché nel Seicento il significato è ignoto».

Il bisogno di questa nuova versione?
«Non riesco più a scrivere soltanto per far divertire. In questo copione, per esempio, dò più importanza ai valori umani, quello della famiglia innanzitutto; il suo crollo è un cancro delle nostre società; ma parlo di usura, e di quel danaro che purtroppo è ancora il motore del mondo; evoco la camorra... che “non è un reato, ma un impiego non ancora riconosciuto dallo Stato”; e ai funerali di don Rodrigo metto l’accento sull’ipocrisia della società quando commisera il morto anche se è stato un poco di buono. Insomma, voglio dire che sono i cinematografari a volere soltanto la mia anima comica. A teatro, nel mio teatro, riesco a esprimerla per intero e, dunque, anche le sue zone d’ombra».

È da 30 anni in palcoscenico. Un bilancio?
«Ho commesso errori, ma rifarei tutto. Il cinema mi ha dato popolarità e un po’ di soldi, ma il teatro è la mia famiglia; realizzato con i giovani e per i giovani. Perché ne ho tanto bisogno».

Come sono i rapporti con Vincenzo Salemme?
«Buoni. Un giorno gli dissi: “Me ne vado, voglio fare da me”. Lui ci restò male, ma comprese. Ora sono anche nel suo ultimo film. Alla fine entrambi facciamo ridere con umanità e amarezza». 
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