De Simone: è tempo di Inti Illimani
«Non rifarò la Gatta Cenerentola»

De Simone: è tempo di Inti Illimani «Non rifarò la Gatta Cenerentola»
di Donatella Longobardi
Venerdì 24 Giugno 2016, 23:48 - Ultimo agg. 25 Giugno, 11:01
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Sette luglio millenovecentosettantasei. Quarant’anni fa. Al Teatro Nuovo di Spoleto va in scena «La Gatta Cenerentola» di Roberto De Simone. Sorpresa, successo immediato. L’opera affascina, conquista e divide, forte di un linguaggio e una carica innovativa dirompente che scava nelle viscere della tradizione popolare rinnovandola e rivisitandola alla luce di una cultura secolare. «Ma anche allora Napoli fu assente», racconta il maestro. Chiuso nella sua casa napoletana di via Foria, al lavoro su un libro dedicato alla canzone napoletana, De Simone non ama le celebrazioni né gli omaggi.

Ma farà un’eccezione. E oggi, alle 16.30, sarà al San Pietro a Majella in occasione dell’incontro dedicato a «La metamorfosi della tradizione – omaggio a De Simone nei quarant’anni della Gatta Cenerentola», una conversazione con Alessandro Pagliara organizzata a conclusione del convegno internazionale di studi «Musicisti del Mediterraneo: Narrazioni di Movimento», organizzato da Conservatorio e Università Orientale che ha riunito più di ottanta musicologi ed etnomusicologi provenienti da Stati Uniti, Canada, centro Europa, ma anche Algeria, Libia e Iraq.

«Il gruppo di studio sulla musica del Mediterraneo presieduto da Ruth Davis dell’Università di Cambridge, riunito a Napoli per la prima volta insieme all’International Musicological Society che raccoglie i musicologi storici di tutto il mondo», ha spiegato il presidente dell’organismo Dinko Fabris, «intende creare in città un osservatorio permanente sulle musiche del Mediterraneo e fare il punto sull’effetto delle migrazioni sui suoni e il loro valore culturale, unica via alternativa ai fondamentalismi». In questo contesto è stato invitato De Simone nel suo ruolo di ricercatore e ricreatore di musiche del passato, un pioniere che proprio con «La Gatta Cenerentola» segnò una svolta nel mondo della musicologia e dell’etnomusicologia.

Maestro, diceva dell’assenza di Napoli.
«Già. Lo sa chi mi diede i fondi per realizzare lo spettacolo? La regione Emilia Romagna».

E il festival di Spoleto?
«Naturalmente. Fu Romolo Valli, all’epoca direttore artistico del Festival dei due Mondi a chiamarci. Mi convocò a Milano, dove recitava l’’Avaro’ di Molière. In un intervallo tra un atto e l’altro gli illustrai il progetto, mi disse ‘Non ho capito niente, ma mi piace’».

Lei e la Nuova Compagnia di Canto Popolare, però, a Spoleto eravate già noti.
«Due anni prima ci aveva presentati Eduardo De Filippo che aveva subito compreso l’importanza del nostro lavoro. All’epoca andavo in giro per le campagne a registrare canti e racconti popolari e portai al festival ‘La canzone della Zeza’».

Poi venne «La Gatta”, come ricorda quel periodo?
«Ricordo soprattutto lo scontro che l’opera originò, sia a destra che a sinistra. Alcuni giornali si scagliarono contro, dicevano che avevo chiuso la mia carriera e potevo solo fare commenti per il cinema e che si trattava di una farsa oscena con turpiloquio. Intanto lo spettacolo era diventato un successo internazionale, andava come un carrarmato che travolgeva tutto e tutti».

Che spiegazione ha dato a tanta ostilità?
«L’opera metteva in campo per la prima volta un argomento discutibile che tuttora non è facilmente praticabile: la religiosità locale. Perché il vero contenuto della ‘Gatta’ è la religiosità».

Si trattava comunque di un’opera che utilizzava un linguaggio e una scrittura rivoluzionari.
«Direi che si trattava di una scrittura antieduardiana, nel senso che non seguiva i modelli del teatro di Eduardo né tantomeno di quello di Scarpetta. Un modello la cui portata pochi hanno compreso ancora oggi. Non è un caso che io mi sia opposto alla riproposizione della festa di Piedigrotta, obiettai che oggi non esiste più la religiosità popolare che aveva alimentato la festa negli anni passati. Mi dissero che la religiosità era un problema del Cardinale...».

Oggi le hanno chiesto di rifare «La Gatta»?
«Ho avuto diverse proposte. Ma il teatro dove sta? E la sala prove? E le voci?».

Però in questi 40 anni ha ripreso spesso lo spettacolo, l’ultima volta nel 2000.
«E non riuscii a trovare alcuni personaggi. Dietro ogni spettacolo c’era sempre un lavoro enorme, provavamo nelle sale del Bianchi, l’ex manicomio, in mezzo ai pazzi. Sono arrivato all’età che ho senza mai avere avuto un teatro mio. Avrei voluto fondare una scuola, anche quella mi è stata più volte e da più parti promessa e non se ne è fatto nulla. Vanno avanti le cose facili e immediate, per questo ho deciso di scegliere la cultura del silenzio».

In che senso, maestro?
«Il silenzio in senso gramsciano. Guai a parlare, basti pensare agli scempi ai Girolamini e al San Carlo. Eppure in questa città le elargizioni si sprecano, come le tante ‘Filumene’».

Lei ha detto di scegliere il silenzio, ma oggi in Conservatorio dovrà parlare, di cosa tratterà?
«Vorrei cogliere l’occasione per sottolineare la particolarità della Scuola musicale napoletana e di come essa si riferisse alla vocalità. Penso sia ai castrati che ai cantanti-attori. Ecco, oggi non abbiamo più la cognizione di quanto fosse importante l’oralità in questa scuola. Le partiture ci riferiscono di vocalità uniche, come quella di Farinelli. È chiaro che oggi non c’è nessuno che può sostenere quei ruoli». (...)
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