La Capria e l'arte dell'autoironia
«Ma non sono più capace di scrivere»

La Capria e l'arte dell'autoironia «Ma non sono più capace di scrivere»
di ​Silvio Perrella
Lunedì 9 Gennaio 2017, 09:26
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Goffredo Parise scrisse una volta una lettera di vibrante bellezza e fraternità a Raffaele La Capria. Si concludeva su quel «doloroso capire tutte le cose» dell'amico napoletano. È da qui che comincia la nostra conversazione: Raffaele a Roma e io Napoli. Le parole corrono lungo i fili del telefono, e anticipano l'incontro che ci sarà oggi pomeriggio al teatro Flaiano, dove alcuni amici diranno quel che li fa vicini all'operare letterario e umano di La Capria. «Il dolore c'è stato sempre; ha attraversato la Storia in ogni momento e anche oggi si manifesta in tanti episodi. Il dolore è qualcosa di imprescindibile per capire quel che accade».

E tu pensi che sia ancora possibile capire quel che accade?
«È tutto talmente complesso! Ma il tentativo lo si deve sempre fare; certo, diventa via via più difficile inserire gli accadimenti in un contesto».
E tu che strumenti usi per provare a farlo?
«Lo faccio con il senso comune, che ti aiuta a capire le cose al di fuori dell'ideologia; te le fa capire con i sentimenti».
È forse per questo che sei stato tra i primi a scrivere dei migranti...
«Il dramma dei migranti è il dramma del nostro tempo. Perché la gente non può più stare nei luoghi in cui è nata. Perché, perché... È la tragedia del nostro tempo. Le persone aspirano a una migliore condizione, e hanno ragione. Ma ci vorrebbero sforzi economici e politici che forse non siamo più in grado di sostenere, anche se è necessario farli».
Mi hai detto più volte che consideri «Vita e destino» di Vasilij Grossman uno dei romanzi capitali del Novecento.
«È un libro epico, dove ci sono vasti territori, e dove ci sono vasti spazi c'è anche la possibilità dell'epica. E affronta i suoi temi dolorosi in una maniera decisa con intuizioni e commozioni che ti toccano».
Che cosa significa alla tua età leggere e scrivere?
«Certe volte è un filo che ti tiene attaccato alla vita. Alla mia età la disperazione ti occupa tutto lo spazio. A me non piace la disperazione, la trovo qualcosa che bisogna sforzarsi di superare virilmente».
E come fai?
«Alimentando il sentimento della vita. La necessità intanto di andare avanti. Portare con sé tutto quello di umano c'è nel tuo mondo. Conservarsi umani: conservare l'umanità è un'impresa non da niente».
Quando vengo a trovarti a Roma, c'è sempre con te un'edizione della Pleiade di Baudelaire, e a volte ti vengono alle labbra dei suoi versi.
«Quello suo fu un tempo in cui fu raggiunta la perfezione poetica, e lui la raggiunse. E quello è un tempo in cui la letteratura ha toccato dei picchi e delle corde non usuali: Je t'adore à l'égal de la voûte nocturne,/ ô vase de tristesse, ô grande taciturne (Io t'adoro al pari della volta notturna/ o vaso di tristezza, grande taciturna)» .Questi versi, Raffaele li dice con una grande naturalezza. Dice che sono dedicati a una donna di colore...  «Una di quelle donne che vivevano a Parigi. Lui non ama la sua donna per un qualcosa di usuale; no, lui guarda nel suo vaso di tristezza, nella sua taciturnità. È bello, no?. Mi ha sempre colpito la tua dimestichezza con la poesia».
Te ne sei fatto a volte traduttore, ma non hai mai scritto un verso tuo. Perché?
«Perché non sono un poeta. Essere poeta significa avere a disposizione un linguaggio che io non ho».
Ma non si può essere poeti anche scrivendo in prosa?
«La poesia non è razionale come la prosa, non nel senso magico della parola».
Ho molto amato una tua prosa che s'intitola «Posillipo '42». Leggendola ho scoperto l'abbandono attivo, quell'abbandonarsi all'onda senza farle resistenza, quel farsi portare fin quasi all'impatto sanguinoso ed esserne riportato indietro immune dall'urto.
«L'esperienza dell'abbandonarsi è un tipo di coinvolgimento totale. È avvenuta in certi momenti della mia vita».
Non nella scrittura?
«Quei momenti sono qualcosa di diverso dalla scrittura; sono piuttosto simili a un'idea generale del mondo come, ad esempio, quella, semplice ma pregnante, della bella giornata».
Mi fai venire in mente la tua predilezione per quelle frase di Gregorio da Nissa, in cui si dice che solo lo stupore conosce.
«Sì, lo stupore. La meraviglia di trovarsi di fronte a quella cosa diventa un atto di conoscenza, la vedi in modo primordiale. Come se fosse la prima volta».
E oggi scrivi?
«Non ne sono più capace, mi manca una cosa che prima avevo: l'energia o l'entusiasmo. Li cerco, ma è come con i sensi, che s'indeboliscono».
La scrittura per te è stata come uno dei cinque sensi, dunque.
«Un senso che attivava tutti gli altri. Sono i sensi gli agenti che in qualche modo attizzano la dimensione che è necessaria allo stupore».
Raffaele, attraverso il telefono, sente il mio ticchettare sulla tastiera del computer, che fa eco alle sue parole. E dice: «Mi sembra di essere io Dio e tu Mosé».
Ci viene da ridere, da ridere fino alle lacrime. E lui aggiunge: «È come se Mosè dicesse a Dio: ma che stupidaggini vai dicendo...».
Non ti è mai mancata, caro Raffaele, l'ironia e soprattutto l'autoironia.
«Sì, sono necessarie, anche se, quando ti viene a mancare un aiuto, l'ironia a volte non ce la fa».
Ma se in te ce la fa ancora, è perché ce l'hai nel sangue in quanto napoletano.
«Credo sia così. A Napoli si usa la parola cuffiare». Cuffiare? «Sì, quando ci si prende in giro». E poi viene da ridere? «E poi viene da ridere».
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