Quei ragazzi in guerra
una sconfitta per tutti

di ​Giuseppe Montesano
Venerdì 7 Ottobre 2016, 08:13
4 Minuti di Lettura
Un ragazzo di quattordici anni ha accoltellato ieri un suo compagno di scuola di un anno più grande. Si tratta di due studenti dell’istituto comprensivo Teresa Confalonieri, una scuola che si trova tra i Decumani e Forcella: l’accoltellatore ha aspettato il compagno in strada dove ha colpito due volte il quindicenne, che è stato operato ed è fuori pericolo. Fuori pericolo? Proprio per niente: il pericolo vero, per l’accoltellatore e l’accoltellato e per tutti quei ragazzi invischiati nella trappola dell’analfabetismo, è appena cominciato. Analfabetismo? Sì, analfabetismo, ma non quello ormai superato della lettura e della scrittura: quello new della ragione e dei sentimenti. Questi ragazzi non leggono nulla: e hanno sostituito i messaggini scritti con le foro su istagram e i messaggi verbali.

Questi ragazzi sono convinti che non apprendere sia da tipi fighi, che accoltellare un tizio sia da tipi trendy, che essere violenti sia da tipi tosti. Sono felici di terrorizzare compagni indifesi a scuola: hanno sperimentato che la cosa è senza conseguenze. Sono felici di non imparare nulla: miracolosamente i soldi per i loro sfizi arrivano lo stesso. Sono felici di non uscire dal proprio mondo-prigione: perché solo nella prigione si sentono al sicuro. Si credono degli eletti, e sono dei condannati. Ma perché mai sono così prigionieri di se stessi? Non c’è dubbio: ciò accade perché si modellano sul mondo claustrofobico che li circonda.

Sanno forse, ma sul serio, che i saperi sono necessari per non essere i paria del mondo futuro? No, perché questo non lo sanno nemmeno gli adulti che abitano il loro mondo. E qui comincia un’altra storia, che non riguarda i ragazzi dei decumani o di dovunque, ma riguarda noi. Se volessimo spiegare a quei ragazzi che le loro possibilità di evolversi esistono nonostante gli svantaggi, che sudarsi le cose è necessario per andare avanti nel lavoro e nella vita, e che chi rispetta le regole viene premiato e chi non le rispetta viene punito: se volessimo mostrargli esempi concreti e numerosi di queste verità, li troveremmo? La predica non basta: dobbiamo mostragli esempi concreti nella politica, nella società, nella realtà. Tocca alla scuola questo? No.

Alla scuola tocca fare la scuola, se è messa realmente nelle condizioni di funzionare, le tocca offrire occasioni di evolversi a tutti: ma le occasioni sono colte dai ragazzi solo se essi hanno la percezione che coglierle li aiuterà anche nella vita fuori della scuola. Non si può chiedere alla scuola di sostituire la famiglia, la società, la politica, il costume, la cultura e tutta quella nube educativa totale in cui siamo immersi: se un ragazzino di dieci anni scopre che per la società in cui vive un incolto ricco è un genio e un colto non ricco è un imbecille, perché mai dovrebbe scegliere la cultura? Se un adolescente scopre che frodare lo Stato, violentare il prossimo e non rispettare le regole genera benessere e ricchezza, perché mai dovrebbe scegliere di rispettare le regole? Se nel mondo in cui il ragazzino è immerso accade che il violento è considerato un furbo intelligente e il non violento è considerato un fesso cretino, perché mai un ragazzino dovrebbe abbandonare la violenza?

E qui non si tratta più solo di Forcella o delle periferie. In maniera diversa la violenza invade anche chi sta al di fuori delle periferie, o crede di stare al di sopra: la violenza come risoluzione dei problemi acquista dovunque appeal, perché sembra funzionare, perché è facile. E diciamolo: come si fa a chiedere a degli adolescenti di ragionare e di uscire dall’analfabetismo dei sentimenti irrazionali quando non c’è una sola trasmissione sulla politica in cui domini il ragionamento e non invece urlanti violenze rese ridicole dallo stucchevole gioco delle parti? Allora bisognerà proprio capovolgere i termini della questione, e cominciare non dai ragazzi che si accoltellano ai Decumani o dovunque diventando secondo la legge del più forte vittime o carnefici, ma dagli adulti che non riescono a uscire essi stessi dall’idea e dalla pratica della sopraffazione reciproca e del fine che giustifica i mezzi.

È poco concreto pensare che dovremmo essere noi adulti a reimparare un modo nuovo di stare al mondo? È poco concreto pensare che dovremmo cominciare noi adulti a premiare il ragionamento e non l’animalità? È poco concreto pensare che non educherò mai nessuno a niente se gli dico di fare ciò che io per primo non faccio? Al contrario, è la sola cosa che abbia concretezza e che non puzzi di demagogia fasulla e di buonismo d’accatto.
I figli sono i figli di madri e padri reali, del loro mondo e del loro tempo reali. Vogliamo che i figli siano diversi e migliori? Che non siano degli analfabeti emotivi? Che ragionino e riflettano invece di irridere e sbraitare? Benissimo: cominciamo a farlo noi.

© RIPRODUZIONE RISERVATA