Eduardo| Aveva ragione Laurence Olivier
era l’attore più inglese al mondo

Eduardo| Aveva ragione Laurence Olivier era l’attore più inglese al mondo
di Massimo Ranieri
Giovedì 30 Ottobre 2014, 04:09 - Ultimo agg. 31 Ottobre, 13:42
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Io Eduardo lo conosco da bambino. No, non di persona. Lo conosco perché mio padre gli assomigliava molto. Pensate che mamma lo chiamava Eduardo invece di Umberto. Scavato quasi come lui. E ne porto il segno anche io. Poi, crescendo, l'ho visto, rivisto, letto, studiato, interpretato, diretto. L'unica volta che sono riuscito a vederlo a teatro ero già adulto.



Fu nel '76-'77 se ricordo bene, all'Eliseo. Ma in famiglia stavamo tutti davanti alla televisione quando la Rai trasmetteva le sue commedie. Insomma, Eduardo è stato il faro, l'ispirazione, il punto di riferimento, anche se inarrivabile. E penso anche all'esempio che ha dato di rettitudine, di serietà nel lavoro e nella vita, anche a costo di diventare sgradevole agli occhi di molti.



Prima lo scoprii come interprete, - immenso - poi come drammaturgo. Aveva ragione Laurence Olivier quando disse che era l'attore più inglese che ci fosse al mondo, per il modo di usare la gestualità e la parola. Era napoletano ma non lo era. Per due volte sono riuscito anche a parlare con lui.



La prima fu quando lo vidi all'Eliseo. Dopo lo spettacolo, andai in camerino per conoscerlo e testimoniargli la mia ammirazione. La seconda fu a Milano. Nell'81. Ero in prova con Strehler e lui lo raggiunse per discutere su un progetto comune, l'allestimento della «Grande magia». Lo accompagnava Franz Di Biase, allora presidente dell'Eti, che mi indicò: Eduardo - gli disse - qua c'è Ranieri». E lui: «Uè, guagliò'! Ma pecché nun vuò' faticà' cu mme?». «Maestro, chi v'ha cuntato ‘sta fessaria?». Lui: «Me l'hanno detto». E se ne andò, lasciandomi là come un ebete muto. Figuratevi se io avrei mai potuto rifiutare il suo invito. Ma il nostro mondo va così.



Non essere riuscito a lavorare con lui non è stato l'unico mio rammarico. L'altro risale a qualche anno dopo, quando proposi all'allora direttore di Raiuno Mauro Mazza di portare in prima serata quattro sue commedie, «Filumena», «Napoli milionaria!», «Questi fanstami!», un noir terribile, popolato da fetenti infelici; infine, il più cecoviano tra i suoi titoli, «Sabato, domenica e lunedì». Il rammarico sta nel fatto che oppresso dalla grandezza dell'autore, non ho osato abbastanza come attore. Non mi sono lasciato andare. Ma quando ti trovi davanti a copioni così perfetti, che cosa fai? Il primo impulso è la rinuncia. Se, invece, decidi di metterli in scena, comunque avanzi con i piedi di piombo. Per giunta, Eduardo non è morto cento, duecento anni fa. La sua presenza è ancora viva e questo rende tutto più difficile a chiunque voglia rappresentare la sua opera. Io ho cercato di metterla in scena il più fedelmente possibile.



Ogni tanto, ho anche provato a fare qualche taglio, ma invano. Quelle pagine sono così perfette che non puoi toccare niente.



Comunque sia andata, oggi sono contento di aver contribuito a divulgare il pensiero e l'arte di un gigante, la cui arte, i cui insegnamenti continuano a vivere e a fare del bene; a noi attori che cerchiamo di riprodurli; al pubblico che cercherà di farli propri. E mi torna alla mente quel che Eduardo disse a Taormina nel settembre '84: «Il teatro è gelo». In quell'attimo mi fece sentire tutto il freddo e la solitudine dei camerini, la fame e le frustrazioni subite. Tutto, inesorabilmente, è inciso nelle sue commedie, e nel suo stile di vita, su cui questa nostra Italia di oggi dovrebbe riflettere.