Luca de Filippo: ​«Ecco la sua lezione
Vivere con serietà»

Luca de Filippo: ​«Ecco la sua lezione Vivere con serietà»
di Luciano Giannini
Giovedì 30 Ottobre 2014, 04:09 - Ultimo agg. 1 Novembre, 11:51
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«Il primo ricordo è un teatro dei burattini che mio padre regalò a me e a mia sorella. Era Natale. Avevo 7-8 anni. Un'infanzia spensierata. Ero felice e un po' discolo. Ma nel '60 lei morì. L'anno dopo persi anche mia madre. E non ebbi più il tempo e la voglia di esserlo. In pochi mesi ho dovuto forzare le tappe della crescita... Quella sera al Terminillo... mia sorella si era spenta da poco. Nella semioscurità dell'albergo, dentro lo stanzone deserto del ristorante, in silenzio, io e mio padre ci facemmo compagnia, mentre io sorseggiavo un piatto di minestra».



Nessun'altra reazione da parte sua?

«Se ci furono, ne fui tenuto al riparo. So che stava recitando a Milano ”Sabato, domenica e lunedì” quando lo avvertirono. E so che volle terminare l'atto. Nell'intervallo si rese conto che non avrebbe retto, sospese lo spettacolo e partì. Lo capisco. Noi attori sentiamo forte la supremazia del palcoscenico rispetto alle esigenze personali. Anche quando morì, nel 1984, io ero a Napoli, al Diana, con ”Chi è cchiù felice ‘e me”. Tra il primo e il secondo tempo mi portarono la notizia. Non dissi nulla. Tornai in scena. Quando calò il sipario, avvisai la compagnia e partii per Roma».



Eduardo e Luca De Filippo. Una vita insieme. Da padre e figlio. È stata una presenza ingombrante?

«No. Quando stai vicino a un uomo così, non pensi... diavolo, io sono figlio di Eduardo! La vita scorre del tutto normale. Poi, certo, facendo il suo stesso lavoro la situazione è diventata un po' più rognosa, perché mi ha obbligato al confronto; ma ho superato anche quel disagio. Eduardo è stato una personalità inarrivabile. Ma non solo per me. Anche per tanti altri. L'unica cosa che potessi fare era lavorare con serietà, senza ricercare un confronto che mi avrebbe visto perdente. Sono gli altri, piuttosto, che mi fanno sentire quel peso, quella presenza ingombrante».



Gli altri chi?

«Ma il pubblico, i giornalisti».

Sereno, cortese, Luca parla di Eduardo con l'autocontrollo, la sobrietà e la riservatezza che gli sono proprie. Nel camerino del Diana, dove sarà fino al 2 novembre con «Sogno di una notte di mezza sbornia», evoca il padre senza alcuna apparente emozione ma con una controllata pacatezza, sintomo più evidente del rispetto che pretende per lui, ma anche della rassegnazione con cui asseconda le mille voci di questo trentennale: «Non so più come dividermi».



Era severo Eduardo?

«No. Voglio dire che non mi sono sentito mai intimorito. Forse perché ha inteso insegnarmi a vivere non con la severità, ma con l'esempio».



Era un padre presente?

«Quando andavo a scuola, soprattutto al liceo scientifico, l'ho visto poco. Partiva spesso in tournée. Ma non ho accusato... come dire... il peso della sua non presenza. Mi dava ampia fiducia. Prima di lasciarci, mi firmava il libretto delle assenze. Tutto. ”Così decidi tu quando ti serve”, mi diceva. Si fidava di me, perché il suo maggiore insegnamento è stata la serietà. Umana e professionale».



Senso etico?

«No, l'etica non si insegna. Ognuno ha la propria».



Senso del dovere?

«No, semplicemente serietà, una virtù che contiene anche quello».



Diventare attore, fare il suo stesso mestiere: una decisione sua o di Eduardo?

«Penso che lui mi abbia dato una leggera spinta, ma non so stabilire le proporzioni tra il suo desiderio e il mio. Posso dire, però, che non ho sbagliato scelta. D'altronde, la strada era tracciata. Già da bambino andavo spesso al San Ferdinando, dove Peppino Mercurio, il macchinista, mi costruiva degli spadini di legno per farmi giocare. Tante foto ritraggono me e mia sorella con Eduardo in platea o sul palcoscenico vuoti e immersi nell'ombra. Tante volte l'ho visto recitare; e ho recitato io stesso al suo fianco. La prima fu all'Odeon di Milano in ”Miseria e nobiltà”, nel ruolo di Peppiniello”. Fu una rappresentazione in qualche modo storica. Per la prima volta le telecamere della Rai ripresero uno spettacolo teatrale. Avevo 6 anni».



Un figlio d'arte forgiato dalle canoniche battute della tradizione, come «Vicienzo m'è padre a mme». Ma lei è nato a Roma. Come faceva con la lingua napoletana?

«Mio padre mi faceva lezione, e mi aiutava nella pronuncia, perché mi mancavano i denti davanti e avevo la zeppola in bocca».



E un lieve, dolcissimo sorriso si irradia sul suo volto, tradendo per un attimo uno stanco sguardo sul mondo, nascosto dietro quella serietà che impregna la sua vita. Luca debuttò al cinema. Aveva 19 anni quando girò «I giovani tigri» al fianco di Helmut Berger. Poi tornò nella compagnia del padre.



L'ha mai ripreso, corretto?

«Certo, ci confrontavamo, com'era normale che fosse. Mi ha guidato nei fatti, ma sono stato io - da solo - a intuire che avrei potuto far l'attore... anche se, certo, sono stato avvantaggiato. Un giorno, a Roma, incontrai dei ragazzi che volevano fare teatro. E mi accorsi che erano prevenuti. Così, dissi loro: ”Sono io che ho prevenzioni verso di voi. Io so perché ho scelto di diventare attore. Ma voi? Voi dovreste spiegarmi perché desiderate farlo pur non essendo figli d'arte».



È stato Eduardo a insegnarle a recitare...

«La recitazione è personale. Non si insegna. Conoscenze tecniche come l'impostazione della voce, i movimenti nello spazio scenico si apprendono sul campo. Invece, si insegna un metodo, e cioè l'analisi del testo, il significato, il modo di metterlo in scena. Tutta l'opera di Eduardo è teatro sociale, una riflessione sulle persone e sulle relazioni tra loro. Ed è il teatro che faccio anch'io. Io so che uno spettacolo è riuscito quando riesco a trasmettere quella essenza al pubblico. Ecco, questo è un metodo, che ho imparato da Eduardo e fatto mio».



Poco prima di morire, nel settembre del 1984 ai Biglietti d'oro di Taormina, suo padre in poche, emozionanti frasi si svelò, lasciandole in qualche modo il testimone. Disse: «Fare teatro sul serio significa sacrificare una vita. Sono cresciuti i figli e non me ne sono accorto. E meno male che mio figlio è cresciuto bene. Senza mio figlio forse io me ne sarei andato all'altro mondo tanti anni fa. Io debbo a lui il resto della mia vita. E lui ha contraccambiato in pieno... Si è presentato da sé, è venuto dalla gavetta, dal niente, sotto il gelo delle mie abitudini teatrali... è stata tutta una vita di sacrificio. E di gelo. Così si fa il teatro, ma il cuore ha tremato sempre, tutte le sere. E continuerà a battere anche quando si sarà fermato».



Condivide questa concezione del teatro? E lei era in platea?

«Certo. Avevo vinto un Biglietto d'oro con una sua commedia. Quella sera mio padre mi fece un gran dono. Mi riconobbe che oltre a lavorare con lui, gli avevo fatto compagnia. Gli ero stato vicino».



E il gelo?

«Aveva ragione. Il teatro è una cosa seria e farlo seriamente vuol dire sacrificare la vita. L'attore deve convivere con la solitudine, in città e alberghi estranei, durante le tournée, senza punti di riferimento. Come galleggiando. Per fortuna io ho Carolina al mio fianco».



Ma allora?!…

«No. Questo è un lato poco piacevole ma, gliel'ho detto, mi sento appagato da quel che faccio. Piuttosto, vorrei tornare sulla parola gelo».



Sentiamo.

«Di Eduardo dicevano: ha un brutto carattere. E io rispondo: se lo poteva permettere. Però, nessuno ha capito che dietro quel gelo palpitava un animo schivo e timido. E quella timidezza era presa per scontrosità. A chi non lo conosceva, incuteva soggezione; ma chi riusciva ad andare oltre l'estraneità, si trovava davanti a un cuore aperto, generoso. E poi...».

Poi?

«Eduardo rifiutava la mediocrità. In risposta, la vittima del rifiuto lo ricambiava parlandone male. Succede sempre. Anche a me, quando nego a qualcuno i diritti delle sue commedie».



Parliamo di questa eredità.

«Trent'anni dalla sua morte non sono molti, ma nemmeno pochi. E conforta vedere che egli vive ancora nel cuore di tanta gente. Certo, mi farebbe piacere se riuscisse a entrare anche in quelli delle nuove generazioni. Ecco perché, in genere, sono disponibile a concedere i diritti delle sue opere, purché la richiesta venga da attori e registi degni di tal nome. Il mio compito è divulgarle. Ma tra 50, cento anni, che cosa accadrà? La sua opera sarà ancora attuale? Il fatto che lo sia dopo 30, mi lascia ben sperare».



Negli ultimi tempi Eduardo si impegnò molto per i ragazzi dell'Istituto di Nisida. La coinvolse?

«Certo. Spesso lo accompagnavo».



E come si comportava con loro?

«Era paterno come un nonno con i nipotini. Una gran tenerezza».



E lei continuerà il suo impegno.

«Sì. Sarà il mio personale omaggio per questi 30 anni: un convegno che coinvolga non solo gli studiosi, ma i politici e le istituzioni; e non in modo episodico, ma duraturo; un incontro che preveda borse di studio, opportunità di lavoro e non solo parole. Perché, vede, anche queste celebrazioni...».



Sì...

«Sono felice, ovviamente, di tanta attenzione e partecipazione. E ai livelli più alti, come il Senato della Repubblica, dove il presidente Grasso ha organizzato un omaggio con studiosi, personalità e attori, che reciteranno poesie e brani delle sue commedie. Ma io preferirei che oltre a celebrare Eduardo, si facesse, piuttosto, qualcosa in suo nome. Per i ragazzi a rischio, per il teatro, per la società. Ecco, questo io vorrei».