«Corruzione, prescrizione più lunga. Abuso d’ufficio, si può cambiare»

«Corruzione, prescrizione più lunga. Abuso d’ufficio, si può cambiare»
di Gerardo Ausiello
Sabato 14 Maggio 2016, 00:23 - Ultimo agg. 08:30
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«Per arginare la corruzione penso ad un combinato disposto tra le corsie preferenziali per alcuni processi e l’allungamento, non esagerato, dei termini di prescrizione». Raffaele Cantone, presidente dell’Autorità Anticorruzione, è appena rientrato in Italia dopo aver partecipato, con il ministro della Giustizia Andrea Orlando, ad un summit internazionale a Londra. C’erano, tra gli altri, il segretario di Stato americano John Kerry e il primo ministro britannico David Cameron.

Cosa è emerso da questo summit internazionale?
«È stato un confronto serrato su temi quali la legislazione anticorruzione e le confische dei beni alla criminalità organizzata. Dopo l’intervento del ministro Orlando, ho avuto la possibilità di spiegare quali strumenti vengono utilizzati in Italia per contrastare questi fenomeni. Norme su cui ha poi posto l’accento il premier Cameron, sottolineando che occorre prendere esempio dalla legislazione italiana. Si tratta di un riconoscimento importante del lavoro che si sta facendo. È la dimostrazione che su questi temi l’Italia è più avanti di tutti, anche se nel nostro Paese ciò non sempre viene detto con chiarezza».

Il lodo Falanga prevede corsie preferenziali per i processi di corruzione con il dichiarato scopo di evitare la prescrizione. È sufficiente?
«Sono stato tra i primi a proporre le corsie preferenziali per la corruzione e resto convinto che questi processi vadano fatti rapidamente per impedire a chi viene ritenuto colpevole di partecipare al processo di assegnazione degli appalti o di continuare a stare nelle istituzioni. Altrimenti si arriva a sentenze che ho definito poco utili, e spiego perché: spesso le condanne vengono comminate quando i soggetti in questione sono addirittura in pensione ed hanno quindi nel frattempo lavorato indisturbati con le pubbliche amministrazioni. È proprio ciò che dobbiamo evitare».

Come? Allungando i termini di prescrizione?
«Forse una ulteriore rimodulazione dei termini non sarebbe scandalosa. Oggi per alcune tipologie di reato la prescrizione scatta dopo poco più di 10 anni. A mio avviso la corruzione non dovrebbe essere prescrivibile al di sotto dei 15 anni; per la corruzione in atti giudiziari si potrebbe arrivare fino a 20 anni».

Non le sembra un paradosso che l’allungamento dei termini di prescrizione produca processi più brevi? A rigor di logica dovrebbe accadere il contrario.
«Io invece ritengo che una rimodulazione non esagerata dei termini di prescrizione avrebbe un effetto anche psicologico e consentirebbe di evitare tattiche dilatorie. Ma, a chi ritiene che l’intervento sulla prescrizione sia la soluzione al problema, dico che è una sconfitta per lo Stato perché colloca il soggetto in un limbo: non è né assolto né condannato. Sul fenomeno, comunque, incidono anche i meccanismi organizzativi. I numeri diffusi dal ministro Orlando mostrano che in alcuni uffici meridionali dove c’è un alto tasso di criminalità, i livelli di prescrizione sono molto bassi. Viceversa in altre aree del Paese dove non c’è una criminalità molto diffusa, la prescrizione incide maggiormente».

A proposito di condannati: tra i detenuti quelli per corruzione con una sentenza passata in giudicato rappresentano solo lo 0,6 per cento della popolazione carceraria. Un dato che non può non far riflettere.
«Questo dipende da una serie di ragioni. In Italia, grazie alle misure alternative che rappresentano una conquista di civiltà, non si va in carcere per pene al di sotto dei quattro anni. E in qualche modo incide anche la prescrizione».

Sulla corruzione il presidente dell’Anm Piercamillo Davigo ha usato parole molto dure, salvo poi aggiustare il tiro. È in gioco una partita per la sovranità tra poteri dello Stato?
«Non la vedrei in questi termini. A volte ci sono eccessi polemici. Cito il presidente del Consiglio Matteo Renzi: molto spesso questa dialettica deriva dal fatto che la politica è debole. Dal canto suo la magistratura deve evitare le generalizzazioni, ma si faccia attenzione a non tornare indietro a una concezione vecchia di 20 anni, secondo la quale il magistrato deve vivere fuori dal mondo, quasi come se la sua indipendenza derivi dal fatto di essere muto. Un giudice che resta in silenzio non è necessariamente un giudice indipendente. Io diffido di più dei giudici che frequentano salotti di potere. Starei attento, insomma, all’idea di una giustizia pontificale e a quelli che dicono: io parlo solo con le sentenze. Anche perché quelle sentenze non le legge praticamente nessuno».

A proposito del reato di abuso di ufficio non ritiene possa verificarsi uno «sdoppiamento della giustizia»? La giustizia delle indagini e, talvolta, del primo giudizio, che opera diversamente da quella «riparatrice» del secondo grado? 
«La formulazione della norma dell’abuso d’ufficio si presta a una certa elasticità interpretativa. Esiste quindi la possibilità di una diversa lettura degli atti amministrativi, che può portare a differenti valutazioni. Nella mia esperienza in Cassazione mi è capitato di vedere soggetti condannati in primo grado e assolti in appello ma anche il contrario».

Secondo lei non esiste il rischio che il polverone in cui tutto passa per corruttela tenga fuori i migliori dalla politica, lasciata invece ai peggiori?
«Questa preoccupazione ha purtroppo un fondamento. Perché il rischio di incappare in indagini giudiziarie può rappresentare per le persone perbene una controspinta a non scendere in campo. Ma, e anch’io ricorro ad un paradosso, la soluzione al problema non può essere la cancellazione del reato di abuso d’ufficio. Non può essere, insomma, abbassare il livello di legalità».

Potrebbe essere allora il superamento dell’obbligatorietà dell’azione penale?
«Su questo ho una posizione laica. Credo nel principio, sono però consapevole che spesso il principio sia un fatto puramente teorico, anche se resto dell’idea che sia opportuno mantenere ugualmente i principi, sebbene teorici. Ma non credo che si possa pensare di risolvere il problema dicendo al pm che può anche non indagare, specie con riferimento ai reati contro la pubblica amministrazione. Il rischio che ciò si trasformi in un boomerang è infatti molto alto. La soluzione, dunque, potrebbe essere o rivedere la norma sull’abuso d’ufficio o collegare gli effetti della legge Severino alla sentenza definitiva, ma solo in caso di abuso d’ufficio».

Intanto a Napoli il procuratore Giovanni Colangelo rischia la vita.
«Al procuratore Colangelo esprimo la mia vicinanza e la mia piena solidarietà. Lui e la Procura di Napoli stanno facendo un lavoro eccezionale nel contrasto alla criminalità organizzata. Forse tutti abbiamo dato un po’ troppo per scontato che fosse stata eliminata la camorra tradizionale. Certo, quei clan sono stati oggettivamente destrutturati. I boss di oggi, tuttavia, sono più incoscienti e dunque più violenti e pericolosi».

La Procura di Napoli è in prima linea anche nella battaglia per impedire la «riproducibilità» della camorra. È giusto togliere i figli ai boss?
«I ragazzi che nascono in certi contesti molto spesso sono condannati a vivere come i genitori. Ma togliere un figlio ad un padre e ad una madre è un atto estremo. Sono molto combattuto».

C’è chi, come Colangelo, combatte la camorra in silenzio e chi di antimafia vive, andando in tv e nei salotti.
«L’antimafia sociale ha svolto in questi anni un ruolo fondamentale e molti successi sono stati ottenuti grazie anche a quest’impegno. Esistono però gli speculatori e chi dell’antimafia ha fatto una professione. Si tratta di degenerazioni pericolose, rispetto alle quali occorre fare autocritica in maniera incisiva. Ma non si può pensare di gettare il bambino con l’acqua sporca».

Per lo scrittore Roberto Saviano sostenere che Gomorra ispiri i camorristi significa essere omertosi. Ha torto o ha ragione?
«Non mi piace l’idea di vietare qualcosa che abbia un interesse pubblico. Del resto film di successo come Scarface sono stati girati negli Stati Uniti e nessuno si è mai opposto. Al tempo stesso non si può accusare qualcuno di essere omertoso solo perché esprime un giudizio negativo».

Come si spezza la camorra sul piano culturale?
«Bisogna fare di più. A Napoli sul fronte della repressione l’azione è stata efficacissima ma a questa attività non è seguita un’azione altrettanto valida sul piano sociale, culturale ed economico».

I conflitti istituzionali, come quello in atto a Napoli tra Comune e Governo, possono indebolire l’azione amministrativa e lasciare pericolosi spazi alla criminalità organizzata?
«I conflitti istituzionali sono inopportuni ma il fatto che si alzino i decibel in campagna elettorale ha un che di fisiologico. A volte questo è anche il segno di una democrazia non pienamente matura. Non credo, tuttavia, che questi conflitti possano favorire l’azione della criminalità organizzata».
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