Berlusconi: diplomazia e armi, solo così possiamo battere l’Isis

di Alessandro Barbano
Giovedì 24 Marzo 2016, 00:54
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 Presidente Berlusconi, in una lettera al «Foglio» lei propone una coalizione che sotto l’egida dell’ONU riunisca Europa, Usa, Russia, Cina e islam moderato contro l’Isis e vada a estirpare il cancro dove si annida, cioè in Iraq e in Siria. A dirsi sembra facile, se non fosse che i protagonisti di questa cordata sono divisi tra loro, e nel caso dell’Europa anche al suo interno, da interessi diversi e talvolta contrapposti.
«Sì, c’è ancora una forte miopia da parte di singoli, ma l’enormità della minaccia ci consegna un’unica strada: porre fine a questa fabbrica di morte che è l’Isis».

Ma è possibile un’azione militare senza tagliare prima il cordone ombelicale che lega l’Isis a quella parte dell’islam che lo finanzia, per usarlo all’interno di un conflitto intestino lungo trent’anni?
«No, non è possibile con la sola forza delle armi. Ma è possibile con la forza delle armi e della diplomazia coordinate dalla massima istituzione mondiale. Ed è questa la strada indicata dallo stesso Putin nel suo intervento alle Nazioni Unite».

Putin si è infilato in un vuoto politico e ha giocato in questi mesi un ruolo decisivo nel quadrante mediorientale. Lei considera realistica un’intesa operativa di Putin con gli attuali interlocutori di Europa e USA a beneficio della stabilizzazione della Siria?
«Sì, realistica e obbligata. Putin è aperto al dialogo, anche se dispiaciuto delle sanzioni subite per la vicenda ucraina. Se la Russia rischia di andare verso La Cina e l’India non è per sua volontà, ma per una scelta miope dell’Occidente, che con il masochismo delle sanzioni ha danneggiato se stesso prima ancora che la Russia». 

Vuol dire che sulla vicenda Ucraina in Europa è prevalso uno schema da guerra fredda, imposto dal Pentagono?
«Non voglio dare interpretazioni, ma stare alla verità dei fatti. I fatti dicono che in Ucraina una democrazia incompleta, se non assente, e una forte crisi economica hanno indotto la popolazione di origine e lingua russa a desiderare un ritorno alla madrepatria. Le condizioni di vita sono slittate in pochi anni sul limite della disperazione. Il nazionalismo nasce da questo dramma sociale, acuito dal confronto che la popolazione fa con la florida condizione dell’economia russa. Sono stato in Crimea con Putin e ho avuto modo di vedere la gente sul Lungomare di Yalta gettarsi tra le sue braccia, piangendo e ringranziandolo. Perché l’Occidente riconosce il referendum degli scozzesi e non quello che in Crimea si è trasformato in un plebiscito con oltre il 90 per cento dei voti per la Russia? C’è, nei confronti di Putin, un punto di vista parziale che vizia l’atteggiamento dell’Europa e degli Usa. E che non aiuta».

Torniamo all’Isis e a una guerra che non si dice, ma è già nei fatti. Tredici anni fa, in Iraq, i neo-conservatori cercarono con la guerra di esportare la democrazia. Fu un fallimento. Lei vuole ritentare l’impresa?
«Proprio no. Tredici anni fa contrastai la volontà di Bush. Lo racconta con efficacia uno dei pochi capitoli sinceri e veritieri del libro di Alan Friedman. In Iraq c’erano tre etnie in conflitto tra loro e un 60 per cento della popolazione analfabeta. Alla quale parlare di democrazia era ridicolo. Purtroppo ciò vale ancora per buona parte del Medioriente e dell’Africa. I paesi stabili sono tutti governati da regimi. Prendi il Marocco, la Giordania, la Siria, l’Egitto. Quando capì che Bush puntava all’attacco, cercai una garanzia per Saddam con l’aiuto di Gheddafi. E l’avevo trovata. Il resto è storia. Volai a Washington con Valentino Valentini, incontrai Bush, Condoleezza Rice, Cheney e il capo del Pentagono. La storiella del leone e del lupo con cui cercai di sdrammatizzare la crisi l’ho raccontata altre volte. Risero tutti, tranne Bush. Perché Saddam aveva attentato alla vita del padre. E questa era una cosa che lui non poteva dimenticare. Così gli Stati Uniti sono andati in Iraq, hanno fatto quello che hanno fatto. E anche per questo è cresciuto l’odio delle popolazioni nei confronti dell’Occidente».

Vuol dire che oggi stabilizzare il Medioriente significa riconsegnarlo realisticamente al migliore dei dittatori possibili?
«Non vedo alternative a una soluzione di questo tipo. Se qualcuno le ha, discutiamone pure. Ma con realismo e senza il velleitarismo degli ultimi anni».

Sta pensando alla Libia?
«Certo che sì. Anche quella è stata una battaglia persa nel presente e vinta nella storia. Litigai duramente con Sarkozy e cercai di portare dalla mia parte Hillary Clinton. Ma la decisione ormai era assunta. Quando arrivammo a Parigi credendo che si potesse discutere, gli aerei francesi erano già in volo ad attaccare la colonna di Gheddafi che andava verso Bengasi. Nessuno come me aveva chiaro in quel momento il disastro che si andava delineando. Perché ero il leader più vicino a Gheddafi, avevo visto con i miei occhi i capi delle 105 tribù divise in tre aree e l’un contro l’altra armate che a lui facevano ogni anno omaggio, rinunciando alla guerra permanente in segno di riconoscenza per quella leadership. Provatelo a fare adesso un governo che, in Libia, decida per tutti».

Ma il migliore dei dittatori possibili per la Siria è Assad?
«Vladimir la pensa così, ne è proprio convinto. Io non escludo che si possa trovare una guida alternativa, sostenuta dall’Occidente e capace di governare su quel che sarà della Siria. Dove c’è stata una guerra civile tra due parti che ha fatto trecentomila morti. Quanto basta per rendere una ricomposizione difficilissima. Ma bisogna provarci».

Nella sua lettera al Foglio c’è un altro caposaldo: vincolare l’accoglienza al rispetto della persona. Vuol dire porre fine a un multiculturalismo che ha infiltrato in Europa enclavi dove si coltiva, non solo il terrorismo, ma anche un brodo antioccidentale. È il volto delle donne che inveiscono a Molenbeek contro la polizia che arresta Salah. Come si fa a vincolare l’accoglienza al rispetto? Con le ricette di Salvini?
«Macché, non si può mandare via un milioneseicentomila musulmani che vivono in Italia. Ci vuole un’opera convinta di acculturamento e di imposizione di regole. Che renda visibili e chiari per tutti i nostri valori, partendo da una consapevolezza che non può essere nascosta: dentro i versetti del Corano ci sono anche principi che non predicano la civile convivenza. Bisogna poter dire questo in Occidente e condividerlo con i musulmani di buona fede, disposti a dare una lettura moderna della loro storia e dell’orgine della loro fede. Maometto non era solo un capo religioso, ma anche un capo militare. Gesù non ha mai fatto prigionieri».

Quando lo disse Ratzinger, fu messo alla gogna.
«Anch’io sono stato messo alla gogna un po’ di anni fa. Oggi ci sono molte più persone disposte ad ammetterlo, senza che questo comporti atteggiamenti xenofobi o di intolleranza. Quando i tempi si fanno più bui, solo la verità può illuminarli».

Che ruolo ha in questa confusione la crisi di sovranità che attraversa l’Europa?
«La crisi dell’Europa è crisi di leadership, cioè mancanza di leader capaci di prendere decisioni e di comunicarle al popolo. Il suo perdurare sta facendo ammalare l’opinione pubblica».

Certo non se la passano meglio i leader dei partiti italiani. Che sono alle corde di fronte a qualunque decisione. Per esempio quella di scegliere un candidato per le elezioni amministrative di Roma. Che fa, Berlusconi, a Roma? Resiste al pressing di alcuni suoi consiglieri per ritirare Bertolaso, quelli che le sussurrano all’orecchio che la Meloni con il suo appoggio e una campagna seria potrebbe farcela?
«Mi dispiace deluderla, ma non c’è nessun pressing. Nel partito sono tutti su Bertolaso. Con convinzione. Perché guardano al bene di Roma, e sanno che ciò che può fare lui per la città non riuscirebbe a farlo nessun altro. Meno che mai quei candidati che hanno fatto nella loro vita solo politica».

Ma il successo dell’alleanza non giustificherebbe una rinuncia? Così divisi, è molto probabile che nessuno dei candidati del centrodestra giunga al ballottaggio. Se Bertolaso stesso dovesse valutare un passo indietro di fronte a sondaggi non incoraggianti, lei che farebbe?
«Non se ne parla neppure. Ho fatto tanta fatica per convincerlo, è un candidato che non ha paragoni con altri. Ed era stato inizialmente gradito anche da Salvini e Meloni, che poi inspiegabilmente hanno cambiato idea. Non c’è nessun motivo per ritirare un candidato in cui credo moltissimo, l’unico che può portare Roma dalla crisi in cui si trova oggi a uno stato di salute. Confido nel buonsenso dei romani e sono convinto che Bertolaso abbia chance di vincere anche al primo turno».

Vuol dire piuttosto che confida anche in una resipiscenza dei suoi alleati?
«Sì, confido anche in quella. Spero che, quando a un mese dalle elezioni capiranno che non hanno nessuna chance di andare al ballottaggio, facciano convergere i loro voti su Bertolaso».

Ma le amministrative sono un modo per contarsi nel futuro Italicum? Se, per esempio, a Milano FI prende meno della Lega e a Roma prende meno di Fratelli d’Italia, nel futuro listone della nuova legge elettorale peseranno i rapporti di forza usciti dalle urne di giugno? E allora le carte del centrodestra le darà ancora lei?
«No, i rapporti non peseranno, anche perché a Roma il voto è condizionato dall’avere noi consentito una lista civica intestata a Bertolaso, che ovviamente raccoglierà molti voti di Forza Italia. Se si andrà alle politiche con un listone, le percentuali di presenza saranno prese valutando i sondaggi di quel momento storico, magari i sondaggi di tre istituti diversi. Ma aggiungo che con il mio ritorno in campo non ho nessun dubbio che Forza Italia sarà di gran lunga il primo partito della coalizione».

A Napoli il Pd punta al suicidio, ma le spaccature del centrodestra rischiano di indebolire anche la corsa di Lettieri a un de Magistris che, fin qui, è riuscito a eludere dietro le debolezze altrui un dibattito sui risultati non esaltanti dei suoi cinque anni a Palazzo San Giacomo.
«Ho fiducia anche nel buonsenso dei napoletani. De Magistris vinse cinque anni fa presentando un programma di 23 punti. Non ne ha realizzato uno. La gente preferirà un uomo del fare come Lettieri, un imprenditore capace e che può mettere al servizio della città l’esperienza di cui c’è bisogno. La partita è aperta e ce la giocheremo sino alla fine».

Il Sud era una brughiera del centrodestra, oggi è una riottosa savana di Renzi. Lei ha rinunciato al Sud?
«E lei la chiama rinuncia? Dimentica che Forza Italia ha subito una violenza assoluta con l’espulsione del proprio leader dalla vita politica, non con i mezzi delle libere elezioni ma con l’uso politico della giustizia? Se una crisi di consenso c’è stata, il motivo è questo. Ma il mio ritorno in campo, secondo alcuni sondaggi, potrebbe riportarci addirittura ad essere il primo partito».

Milano da una parte, Roma e Napoli dall’altra. I sondaggi raccontano due Italie. La prima dove la democrazia rappresentativa passa dai politici ai tecnici senza traumi e convergendo verso il centro, e l’altra dove l’assedio dell’antipolitica soffoca i partiti tradizionali e mette a nudo la loro crisi. Se le primarie sono un’incompiuta, neanche i suoi circoli sono riusciti a riportare i migliori dentro la politica, non le pare?
«La politica ha deluso molti cittadini e nelle ultime tre elezioni, due regionali e una europea, ha votato solo una metà dell'elettorato. Ci sono 26 milioni di italiani sfiduciati. Dobbiamo tornare a parlare a loro con un programma nuovo. Significa aggiornare ai tempi la nostra rivoluzione liberale, costruendo una proposta per il governo del Paese e una squadra di protagonisti. Forza Italia centrerà la sfida e per questo sto chiamando all’impegno politico, come feci nel ‘94, personalità che vengono dal mondo dell’impresa, delle professioni, della cultura e del volontariato. Costruiremo una strategia politica ed elettorale forte, nelle sedi del discorso pubblico, le piazze, i media, la rete. Abbiamo un anno, o forse due anni di tempo per tornare il primo partito del Paese e superare da soli il 40 per cento alle elezioni. Io ci credo».

Ma lei si vede ancora a capo di questo cartello? Dica la verità, Berlusconi, ha smesso di cercare un erede? Quattro, cinque anni fa, quando era ancora in gioco e sotto l’attacco politico-giudiziario, sembrava porsi il problema del passaggio del testimone più di quanto non faccia adesso. La delusione di Alfano l’ha traumatizzata? Non crede che sia proprio questa lunga transizione a impedire al centrodestra di tornare forza egemone?
«No, non è cambiato nulla. So bene che l’operazione per riportare alla politica tanti cittadini delusi deve avere al centro un protagonista. Un candidato alla presidenza del Consiglio forte, che non sarò io, con una squadra autorevole e competente. Da tempo lavoro a questo progetto e ci sono possibilità che si concretizzeranno presto. Ma intanto, per quanto riguarda la corsa elettorale, un Berlusconi riportato nella pienezza della sua innocenza, come sono certo farà presto la Corte di Strasburgo, sarà la vera spinta verso la rimonta e la vittoria».

Lei lo crede ancora?
«Certamente sì, c’è un amore nei miei confronti che tocco ogni volta che cammino per strada. La gente ha capito che cosa mi hanno fatto, mi vuole molto più bene di qualche anno fa. Anche gli avversari sanno in cuor loro che fin qui hanno vinto barando. Sono integro, mentalmente e fisicamente. Posso scendere in campo domattina. Se fosse necessario, come ho fatto nel 94 tornerei a sacrificarmi per il mio Paese. Spero tuttavia di trovare qualcuno che possa prendere il testimone da me ed essere il leader di tutto il centrodestra».

Chi è Renzi, oggi, per lei?
«È un presidente del consiglio abusivo e illegittimo. Con primarie manovrate ha preso in mano la segreteria del Pd, da cui ha fatto il balzo a Palazzo Chigi, dopo avere garantito che mai ci sarebbe andato se non non attraverso regolari elezioni. Guida un governo non eletto dal popolo, che si sostiene grazie al voto di sessanta senatori del centrodestra. Un governo contro il voto degli italiani che calpesta la sovranità nazionale».

E Verdini chi è? Un ex alleato, un nemico, un «compagno» che sbaglia? «Verdini è un protagonista di una certa politica che ha ritenuto che l’avventura di Renzi possa continuare nel tempo, e ha scelto di aggregarsi ad essa. Da lì è venuta fuori l’incompatibilità della sua presenza in Forza Italia. Ci siamo salutati con una stretta di mano e con una presa d’atto dei diversi convincimenti».

Ma se l’assedio dell’antipolitica dovesse continuare, lei esclude che il patto del Nazareno possa tornare a essere una strada obbligata? Dica la verità: la considera davvero un’esperienza irripetibile o piuttosto qualche volta prova un po’ di nostalgia?
«Ho creduto nel patto del Nazareno perché pensavo che ci offrisse la possibilità di modernizzare il Paese attraverso riforme studiate, progettate e realizzate insieme. Questo era nelle intenzioni, almeno nelle mie. Ma il seguito è stato diverso. Renzi senza interpellarci ha imposto diciassette cambiamenti, tra cui la riforma del Senato, la legge elettorale, e la rottura degli accordi sulla scelta del capo dello Stato. Ho compreso che lui voleva cucire un vestito fatto su misura per sé. Un vestito che prevedesse una sola Camera che fa le leggi, un partito che ha la maggioranza in questa Camera e un leader che ha tutto il potere in questo partito. Qualcosa che somiglia a un regime. Ma non ha fatto bene i conti con gli imprevisti. Perché quel vestito rischia adesso di stare a puntino al movimento Cinquestelle. E questa sarebbe una cosa tragica per la democrazia. Perciò stiamo in campo e ci staremo sempre di più».

Se sotto il suo governo fosse avvenuto un cambio al vertice di Telecom per mano di un colosso delle tlc francesi controllate dallo Stato, che cosa sarebbe accaduto?
«La rivoluzione. Ma sarebbe accaduta anche se avessimo occupato militarmente così tanti ruoli nelle aziende che dipendono dall’ammistrazione pubblica, la Rai per esempio, quanto sta facendo il governo Renzi».

Cosa sarà invece del suo impero mediatico? Non risponda, la prego: se ne occuperanno i miei figli. Lei ha spento i rumors su una possibile fusione con «Vivendi» indicando il perimetro di una collaborazione sulla TV on demand, ma ovunque, attorno alle cattedrali della politica, si disegnano processi di concentrazione. Repubblica e La Stampa insegnano. È un destino?
«Probabilmente sì, ma per certi settori, forse non per altri. Per la produzione di format o la vendita di film e fiction al singolo utente è importante che ci sia un’offerta europea. Vedo un futuro difficile per la televisione a pagamento ma ancora molte chance per la free television, che resta l’unico mezzo per promozionare offerte e prodotti a un target di cinque, otto, dieci milioni di utenti». Non teme che Bolloré possa diventare l’uomo più potente d’Italia, in una parola più potente di lei?
«Non ho mai pensato a me in termini di potenza, è l’ultimo dei pensieri.
Bolloré è una persona che conosco bene, è un ottimo imprenditore che porta avanti una sua linea di sviluppo, ha la possibilità con “Vivendi” di disporre di somme importanti. Credo che i suoi profitti stiano nelle cose. In ogni caso il quadro del potere in Italia è così frammentato da impedire a chiunque di imporsi come attore di comunicazione contro gli altri. Non vedo il rischio».
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