La risposta sbagliata
alla cavalcata populista

Mercoledì 22 Marzo 2017, 23:50
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La notizia politica del giorno è l’apertura esplicita di Bersani al Movimento cinque stelle che, immagino, costituisce l’indicazione di una linea rappresentativa di quel pezzo di partito che è andato via dal Pd. Non si può trattare di una iniziativa estemporanea, e peraltro è in perfetta convergenza con il Bersani 2013, di cui ancora si ricorda l’incontro in streaming con i rappresentanti del Movimento. Non contento, Bersani ci riprova. Bene, in politica quasi nulla va demonizzato, ma tutto, beninteso, va discusso e non con le reti diplomatiche che talvolta avvolgono il discorso pubblico.

Situazione simile al 2013? Non proprio. Allora la proposta di Bersani si rivolgeva, a nome di tutto il partito, a un movimento che costituiva la terza forza del paese. Oggi l’apertura di Bersani avviene da parte di un piccolo gruppo politico «di sinistra» non ancora elettoralmente testato, ma di certo non confrontabile numericamente in alcun modo con la forza che il partito da lui rappresentato aveva nel 2013. Cosa non da poco, giacchè la proposta, se andasse in porto, sarebbe, per forza di cose, di sostanziale subaltenità. Bersani parla come se ancora fosse il segretario di un grande partito che, di sicuro, ha una sua libertà di movimento e una sua capacità di attrazione egemonica. Ma che significa dire la stessa cosa essendo, per ora, il membro di un piccolo gruppo di scissionisti, registrando, con questa parola, un semplice dato di fatto? È dunque una proposta subalterna, ma subalterna a chi? Ecco il punto. Ai Cinque Stelle, nel momento, pare, della loro massima espansione.


Un pezzo della sinistra che si dichiara riformista si prende questa responsabilità, chi sa, magari il ricordo dell’operazione Togliatti verso «l’Uomo Qualunque», dialogare per assorbirli, ma Togliatti era segretario del Pci, un elefante dinanzi a una mosca, oggi chi è l’uno, chi è l’altra? Dunque subalterna a chi, l’operazione? Che cosa esprime oggi la fisionomia del Movimento? E che cosa è il Movimento? Come si presenta all’opinione pubblica? Registro un primo dato del tutto oggettivo. Intanto si presenta senza nessuna regola di democrazia interna, in esplicita antitesi allo spirito di un mai attuato articolo della costituzione che dei partiti faceva la mediazione «democratica» del sistema politico. Lì niente di tutto questo, c’è un garante (di che? Investito come?) che di professione ha fatto il comico, e credo lo faccia nel tempo libero, e che, in collegamento con una associazione imprenditoriale privata (Casaleggio e associati) dà legge indiscutibile a tutto il Movimento, in modo insindacabile, come episodi recentissimi mettono in luce. Conta dire questo, nella confusione generale? In tempo di post-verità? Non so, giudichi Bersani che è stato il protagonista di una battaglia per una sempre maggiore democratizzazione del partito di cui era segretario; che ha esaltato la funzione delle primarie dall’esito delle quali è stato anche democraticamente sconfitto. Tutto dimenticato? Pur di porre la barriera definitiva contro il proprio ex-partito? Certo, se guidato ancora da Renzi? È possibile che l’insofferenza politica, l’ostilità politica giunga a tanto? A contraddirsi così radicalmente? Ma che cosa dice il Movimento? Come si va presentando sulla scena? Qui la cosa è ancora più sconcertante.


La diagnosi di Bersani: il Movimento è il nuovo Centro del sistema, affermazione che devo prendere alla lettera. Ma il Movimento è il cuore dell’antipolitica (in democrazia anche questo va accettato, anche se alla fine la cosa può fare, alla democrazia, assai male), con una egemonia crescente, disegnata recentemente in un articolo di Angelo Panebianco sul Corriere della sera che ha avuto molta eco. Antipolitica? Sì. Giustizialismo oltre ogni limite accettabile; disprezzo per la democrazia rappresentativa; confusa democrazia di rete che produce episodi come quelli romani, seppelliti nella coscienza di molti; populismo dichiarato su Europa e dintorni, poco o niente si capisce che cosa vogliono. Contributo generale a far crescere nel paese insofferenza verso la politica, tutti corrotti, un avviso di garanzia è già condanna, e quando un problema sfiora uno di loro allora gli azzeccagarbugli trionfano, con scarse opposizioni, nelle televisioni più varie. Tutte le corde dell’antipolitica e del populismo messe sul terreno di gioco. Ora questo è diventato indubbiamente un elemento delle democrazie di massa, l’emozione, negli anni di crisi, sostituisce la ragionevolezza. I populismi hanno le loro ragioni per crescere, gli errori delle élite politiche sono tanti, la disaffezione alla politica ha le sue motivazioni serie. Nella pentola delle società ribollono sentimenti di critica radicale verso l’assetto delle cose. Il problema è come si risponde a tutto questo, se cavalcando gli istinti delle società, restando dentro la voce contraddittoria della protesta, magari rozzamente incoraggiandola, oppure dando una scossa etico-politica, l’avvio di una resistenza culturale, l’inizio finalmente di una lotta politica aperta sui grandi temi, dove la difficoltà, l’insufficienza delle culture di protesta è netta, evidente. Il mondo è complicato, il grido inarticolato che si ascolta in giro non basta, si può anche comprendere, qualche volta può perfino vincere, ma poi si mostra insufficiente. E allora questo è il tema di chi crede nella cultura del riformismo e non nell’accumulo di odio e disprezzo. Una lotta difficile che all’inizio può essere minoritaria, ma è destinata prima o dopo a prevalere se non perde la fiducia in se stessa.


Vedremo l’Europa, vedremo la Francia, un grande test vicino, quello che appare decisivo.
Macron, il candidato nuovo, combatte il populismo «destro» di Le Pen e quello «sinistro» di Mélenchon, affrontando i temi veri, non negando la crisi, ma con un netto rifiuto di assuefarsi all’andamento delle cose, alla irragionevolezza delle emozioni. Bene. Se Macron vincerà le elezioni francesi, previsione che mi sento di fare, questo sarà conferma che il populismo non va cavalcato, ma combattuto. Con le armi della democrazia, della rinascita tranquilla di una cultura politica aperta, seria, che entri nel cuore e nel cervello di un popolo, non dunque piluccando qua e là i loro temi, ma combattendo a viso aperto una battaglia che merita di esser combattuta, vincente o perdente che sia. Sarà i Pd capace di questo? E parlo del Pd come del partito che oggi è il perno del governo del Paese, e ha più responsabilità di altri. Bersani sembra aver fatto la sua scelta, chi sa forse proprio da qui, dall’avvio di una critica serrata a essa, qualcosa di nuovo e di bello può rinascere. Ma ci vuole l’intelligenza calma di chi sa di stare dalla parte giusta.
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