Campania, le imprese si scoprono più forti e resistenti alla crisi

Campania, le imprese si scoprono più forti e resistenti alla crisi
di Francesco Pacifico
Sabato 19 Agosto 2017, 00:00
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La strada da recuperare - poco meno di 7.500 aziende hanno abbassato la saracinesca negli anni della crisi - è ancora tanta. Ma la Campania ha frenato l’ondata di fallimenti, che l’hanno portata a registrare un decimo delle chiusure di tutto il territorio nazionale. Uniocamere-Infocamere ha comunicato che tra il secondo trimestre del 2017 e quello del 2016 i fallimenti sono calati del 25,9 per cento: cioè sono passati da 313 a 232 in dodici mesi. In sostanza, un quarto in meno.

La performance della Campania assume un peso maggiore, se si guarda a quanto è successo a livello territoriale e nazionale. Sul primo versante sono proprio Nordest (-16,8 per cento rispetto al secondo trimestre 2016) e Mezzogiorno (-16,5) a guidare la classifica delle più aree più dinamiche e virtuose, lasciando a distanza Nord Ovest (-14,7 per cento) e Centro (-12,2). A livello nazionale, invece, sempre Unioncamere ha fatto sapere che nello stesso periodo sono fallite 3.008 imprese, contro le 3.537 che hanno chiuso nel corrispondente periodo del 2016. Numeri che portano la riduzione complessiva al 15 per cento, confermando un’inversione di tendenza iniziata già lo scorso anno, quando tra il secondo trimestre del 2016 e quello del 2015 si era avuta una flessione del 3 per cento.

Tornando alla Campania, alla base di questa performance ci sono la crescita record della regione (soltanto nel 2006 il Pil è salito dell’1,2 per cento, il doppio di quello nazionale) e i massicci investimenti privati alimentati attraverso i contratti di programma e gli altri strumenti d’incentivazione messi a disposizione dal governo e dalla giunta De Luca, che contemporaneamente hanno fatto ripartire l’attività manifatturiera e i consumi. Eppure il dato positivo sul calo dei fallimenti - come quelli sulla crescita, sull’occupazione (più 3,8 per cento rispetto al 2015) o sui consumi delle famiglie (più 0,9 per cento) - vanno letti in filigrana per non farci trarre in errore.

«Perché - spiega Andrea Prete, presidente di Unioncamere Campania - c’è ancora tanto da fare per risalire la china, infatti sentiamo ancora gli effetti della crisi. Il conteggio andrebbe fatto sugli ultimi dieci anni per capire quanto benessere abbiamo perso: soltanto tra il 2008 e il 2015 abbiamo visto crollare il Pil di quindici punti percentuali. A questa velocità li recuperiamo non prima di un decennio».

Prete non nasconde passi avanti - «I segnali di ripresa ci sono, non lo sto negando, anche se sono troppo flebili» - però ricorda che le aziende dell’area «stanno ancora risalendo la montagna. Il che vuol dire che non ho risolto la crisi». Di più, secondo il leader campano di Unioncamere, nei dati sui fallimenti c’è un’ombra che dovrebbe far riflettere: «La crisi - dice - in tua la sua violenza ha fatto una selezione spaventosa tra le imprese, tagliando le gambe a quelle deboli, che non potevano restare in piedi. Di conseguenza è preoccupante che in un periodo tutto sommato di ripresa, con realtà che hanno fatto importanti ristrutturazioni e si riconvertite nel momento peggiore, ci siano ancora aziende che abbassano la saracinesca».

Lesina l’ottimismo anche Walter Schiavella, il leader campano della Cgil: «Tutti gli indicatori danno segnali positivi e ci fanno ben sperare nella ripresa, il punto che sono segnali ingannevoli se presi in termini assoluti. Vanno letti in relazione alla dinamicità delle altre aree del Paese e delle nazioni limitrofe oppure confrontando sempre il livello di arretramento del Mezzogiorno nei rispetto al resto dell’Italia». Anche perché quest’anno il Sud smetterà di crescere più del Nord come è successo nell’ultimo biennio. «Per questo - aggiunge il numero uno della confederazione - servono politiche di intervento pubblico più incisive di quelle messe in atto finora dal governo. Perché, ripeto, i segnali positivi non ci danno la prova di una reale e profonda inversione di tendenza in atto».

A livello nazionale i settori che hanno registrato meno chiusure sono stati quelli delle costruzioni, del trasporto e del magazzinaggio, del manifatturiero e del commercio all’ingrosso e al dettaglio. In Campania segnano meno fallimenti soprattutto le realtà del terziario: commercio innanzitutto, subito seguito dalle attività legate a turismo e ricettività. «Anche se - segnala Prete - dopo la crisi del negozio di prossimità viviamo il forte rallentamento dei centri commerciali, che pagano l’ecommerce».

Proprio grazie agli incentivi pubblici regge la manifattura, soprattutto nei comparti dove l’indotto è legato alle grandi industrie. Al riguardo il coordinatore dell’Ires Campania, Giovanni De Falco, sottolinea però «i problemi che nell’area di Pomigliano stanno avendo i produttori della componentistica per l’aerospazio, dopo che i colossi del settore hanno deciso di riportare in casa alcune lavorazioni prima esternalizzate». «Tutto il manifatturiero - conclude Schiavella - negli anni della crisi ha visto eroso più di un terzo della sua base produttività. Regge la meccanica, mentre l’aumento della spesa ha avuto effetti tutto sommato positivi anche sull’edilizia, ma non parliamo di grandi opere. Eppure il dato sui fallimenti va aggiornato a fine anno, quando finiranno gli ammortizzatori sociali. Ed è una mina sul nostro futuro senza una ripresa solida sono a rischio oltre 10mila lavoratori».
 
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