Arianna, i genitori
e la responsabilità dimenticata

di Aldo Masullo
Domenica 23 Luglio 2017, 23:55 - Ultimo agg. 27 Luglio, 22:10
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«Devo salvare mia figlia» è il toccante grido di dolore della signora napoletana che alcuni giorni fa in un’intervista condotta dalla brava Maria Chiara Aulisio, racconta l’inferno della sua vita consumata dalla disperazione. La donna non riesce a tirar fuori Arianna, la figlia quattordicenne, da un circolo di droga, furto e prostituzione. Il suo dolore è, come sempre è il dolore, irriducibilmente solitario: nessuno può sentire il dolore dell’altro, «condividerlo», come banalmente si dice.

Ma il grido della mamma non è solo di dolore, ripiegato su se stesso, ma anche di allarme, è un pubblico, appassionato richiamo alla mobilitazione dei genitori e all’attenzione degli adolescenti. Io credo però che questo grido non possa restare un gesto individuale di dolore e di allarme. Esso deve risvegliare il bisogno di capire perché tutto ciò succeda.


Varie volte ciò si è fatto, ma un esame di coscienza, che storicizzi le nostre disgrazie individuali restituendone il significato alla loro dimensione sociale, e rendendole così ragionevolmente comprensibili e istruttive, è sempre un utile un atto d’igiene collettiva. Il caso della signora napoletana non è un “caso”, una cattiveria della sorte ma, sia pure per lo più in forme meno drammatiche, è una situazione diffusa, certamente non solo in Italia, ma caratterizzata in Italia da alcune particolari condizioni. Si tratta insomma di affrontare, con il coraggio della franchezza scientifica, l’analisi di un vero e proprio pezzo di storia, la storia della seconda metà del Novecento, per certi non irrilevanti aspetti non ancora chiusa, nonostante il passaggio del millennio.


Di essa noi stessi siamo stati e tuttora siamo gli attori. Nel 1968 mi capitò d’insegnare nell’Università di una grande città siciliana. Anche lì l’onda lunga dei movimenti studenteschi giunse, tra gli entusiasmi e le incertezze dei giovani e le preoccupazioni dei professori. La cosa che più mi parve interessante allora non avvenne nelle aule, dove qualche professore seriamente progressista comunque riusciva con l’instancabile dialogo a incanalare la protesta nelle forme del ragionamento critico e delle sperimentazioni innovative. Il curioso si mostrava nelle pieghe del tessuto sociale. Faccio un esempio. Conobbi varie famiglie di severe tradizioni, come del resto se ne trovavano molte non solo in Sicilia ma un po’ dovunque in Italia. In queste famiglie spesso la figlia maggiore restava sottomessa alla antica disciplina, mentre la pretesa di libertà delle minori non trovava alcuna resistenza. Nello scontro tra le generazioni, non tanto fu la forza giovanile a vincere, quanto la debolezza degli adulti a perdere. In altri termini, più che affermarsi la libertà dei figli, fu la responsabilità dei padri e delle madri a venir meno. Naturalmente non parlo affatto di colpa delle persone, che allora erano i padri e le madri degli adolescenti. Nei grandi fenomeni collettivi succede come nelle piazze affollate: se nella massa attenta ad uno spettacolo si suscita un pur piccolo moto, subito si scatena un’ondata di fuga, nella cui irresistibile furia ogni singolo viene forzosamente coinvolto o addirittura travolto. La storia è una tessitura, in cui ogni volta un nuovo ordito è prodotto dalle mutate condizioni materiali, mentre a disegnare la nuova trama cospirano potenti forme ideologiche e massicci flussi di desideri. A parte l’ordito, la trama della seconda metà del Novecento ha nel ’68 la sua cifra. Dopo il cataclisma di ferro e di sangue, le prime generazioni che non lo avevano conosciuto, non potevano non essere insofferenti dinanzi alla ripresa del sopravvissuto mondo borghese con le sue forme tardo-romantiche.

Di questo mondo, col favore dell’iniziante economia dell’abbondanza e della ideologia consumistica, quelle generazioni cestinarono le vecchie felpe formali in nome della spregiudicata schiettezza della libertà: niente più autorità di padri, di professori, di regole, di tradizioni. Ogni individuo faccia quel che vuole purché, se mai, non dia fastidio al vicino. Parve a quei giovani che si potesse essere liberi perfino dalla realtà: il loro grido più entusiasmante fu «l’immaginazione al potere!». Il curioso è che quella che ora si direbbe una «rottamazione», allora non solo di padri ma di ogni residuo del vecchio ordine, entusiasmava i figli ma nel profondo, quasi sempre senza che se ne avesse chiara coscienza, ben più piacque ai padri (e a molte madri). Pensate: liberi i figli appena adolescenti, ma ancor più liberi i genitori dal pesante fardello di badare ad essi! Bastava ospitarli con tutti i comodi e aprire il portafoglio, magari fare qualche debito, per soddisfare le loro richieste di mezzi adeguati al sempre più alto tenore medio di vita. Per il resto se la vedevano loro, i ragazzi. Che cosa poi facessero del loro preziosissimo tempo, se studiassero o si avviassero al lavoro o qualsiasi altro facessero, anche niente, questi erano fatti loro, rientrava nella loro sfera d’intangibile libertà. Per più di trent’anni ci si è cullati in questo stato di cose, quasi esso dovesse indefinitamente durare. Nel nuovo millennio, tutto ha iniziato a cambiare, e poi sempre più velocemente è cambiato, soprattutto in Italia. In altri Paesi avanzati, da molto tempo e ben prima della guerra, i figli uscivano giovani dalle famiglie, diventavano psicologicamente maggiorenni ancor prima di esserlo giuridicamente.

Essi si liberavano, ma mantenendosi, spesso anche agli studi, con le risorse del proprio lavoro. Da noi le famiglie per lo più hanno voluto scrollarsi del peso di badare ai figli, ma al tempo stesso, trattenendoli nel nido, hanno impedito loro d’imparare a badare a se stessi. Non solamente certo, ma anche a causa di questo modello sociale, in Italia il cambiamento economico e le difficoltà occupazionali hanno un costo umano molto più doloroso. Lo mette in evidenza la percentuale altissima dei cosiddetti «neet», dei giovani che né seguono studi né hanno occupazione. Si dovrebbe ormai capire che quella indipendenza lasciata ai giovani dai genitori per avere appieno la propria, non era libertà. Il che è vero non in nome di qualche astratto dovere da osservare ma per una dura esigenza di vita. Non si lascia che un bimbo di pochi anni attraversi da solo una strada, non perché non gli si riconosca la sua libertà di principio, ma perché si sa che egli non è in grado di decidere o meno il momento favorevole o valutare correttamente se l’approssimarsi di un veicolo consenta l’attraversamento senza pericolo.


Purtroppo si usa chiamare libertà ciò che è semplicemente indipendenza, come quella di un cane senza guinzaglio.
Perché l’indipendenza divenga libertà, è necessario che si sia autonomi, capaci cioè di darsi da sé le necessarie regole, e perciò «regolarsi» nel proprio vivere ed essere responsabili verso la vita degli altri. Il grido di dolore della mamma napoletana è uno dei tanti drammi personali in cui sbocca la storia nazionale. Purtroppo è sempre l’individuo che paga gli errori collettivi. Quel grido, nel suo voler essere non solo un gesto di dolore ma anche un forte segnale d’allarme, è un atto di responsabilità.
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