La guerra di civiltà tra islamici

di Luigi Covatta
Domenica 20 Agosto 2017, 23:55
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Seyran Ates, la femminista turca che a Berlino ha aperto una moschea in cui uomini e donne si alternano di venerdì in venerdì nel ruolo dell’imam, lo ha detto chiaro: «Attentati come quelli di Barcellona hanno a che fare con l’Islam». Non sono, cioè, una deviazione (o addirittura la negazione) dei valori del Corano, come vuole la retorica dell’Islam «moderato» e perbenista che opera nelle principali città europee. Impongono invece una radicale revisione delle culture che al Corano si ispirano. Intendiamoci: attentati come quelli di Barcellona hanno a che fare anche con molto altro.

Non a caso la «radicalizzazione» di quelli che volevano far saltare in aria la Sagrada Familia non comportava la rinuncia agli alcolici e alle droghe, né impediva altri comportamenti generalmente censurati nelle comunità musulmane. E del resto si trattava di giovani nati e cresciuti in Catalogna, non di profughi scampati alla fame e alla sete dell’Africa subsahariana o alle guerre civili del Medio Oriente: per cui quegli attentati hanno a che fare anche con noi, con la nostra cultura e con la nostra capacità di offrire un orizzonte alle nuove generazioni, qualunque ne sia l’etnia di origine. Non si tratta di sgranare il solito rosario sul disagio di una generazione destinata a vivere peggio della generazione precedente: in Italia il terrorismo fece centinaia di morti quando la crescita era costante ed il benessere diffuso. Si tratta invece di fare autocoscienza sui valori che trasmettiamo o non trasmettiamo: fino magari a convincere sbarbati diciottenni a cercare un altrove il più lontano possibile dal «costume di casa», se non addirittura a sfogare la rabbia con la violenza indiscriminata, o a «cercar la bella morte». Anche in seno all’Occidente, quindi, c’è da combattere una «guerra di civiltà». Ma una guerra di civiltà va combattuta innanzitutto in seno al mondo islamico. Ovviamente non le guerre che sono in atto, e che non hanno bisogno di incentivi ulteriori: come quella fra sunniti e sciiti, quelle che conducono i salafiti contro le altre confessioni sunnite, e le decine di guerre per procura finite fuori controllo da parte degli Stati che le avevano promosse. Piuttosto c’è da combattere la guerra dichiarata da Seyran Ates, che nella sua moschea vieta l’ingresso alle donne velate col niqab o col burqa. In seno all’Islam, infatti, non c’è bisogno di «moderazione».


C’è anzi bisogno di un nuovo radicalismo che rianimi una tradizione pietrificata da troppi secoli, in coincidenza col declino della civiltà araba.
E non ci si può aspettare che esso fiorisca nelle moschee occidentali finanziate e controllate da Stati in cui alle donne è negato il diritto di voto ed è proibito guidare un’automobile. Questo non significa «esportare la democrazia», tema su cui abbiamo già dato. Non significa nemmeno rinunciare a negoziare con gli Stati islamici per ottenere maggiori controlli sulle istituzioni religiose che essi finanziano in Occidente (e in Italia finalmente qualcosa si sta facendo, dopo la firma del Patto nazionale per l’Islam italiano). Significa però non adagiarsi in un multiculturalismo peloso che solo apparentemente rispetta le tradizioni dell’altro, mentre in realtà le disprezza tanto da negarne qualsiasi possibilità di evoluzione. Si dirà che non basta un imam a Berlino per operare un salto di qualità di tale portata, ed è vero. Ma cinquecento anni fa si diceva la stessa cosa di un monaco tedesco che esponeva le sue 95 tesi alla porta di una chiesa di Wittenberg.
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