Il dovere di alzare il velo sulla verità. La lezione dei reporter anti-pedofilia

Il dovere di alzare il velo sulla verità. La lezione dei reporter anti-pedofilia
di Francesco Romanetti
Lunedì 29 Febbraio 2016, 23:35 - Ultimo agg. 23:38
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Nel film «Il caso Spotlight» c’è un mondo oscuro, torbido, nascosto. Che però molti conoscevano e avevano fatto finta di non conoscere. Di più: c’è il silenzio colpevole. E peggio ancora: l’insabbiamento, la complicità nell’occultare, un viscido tramare fatto di collusioni e coperture. «Il caso Spotlight», il film vincitore dell’Oscar, è questo che racconta: un’inchiesta giornalistica che fa luce su quasi cento casi di preti pedofili, nell’arcidiocesi di Boston, dove però non emergono soltanto le responsabilità delle gerarchie ecclesiastiche. Il film mostra anche poliziotti conniventi, magistrati pavidi, avvocati affaristi, politici vigliacchi. E anche giornalisti intimoriti e ricattabili, che ricevono dossier di denuncia e li fanno sparire.

La storia è vera. Davvero a Boston, nel 2002, una memorabile inchiesta investigativa condotta da un pool di cronisti del Boston Globe (un pool chiamato appunto Spotlight) riuscì a mettere le mani su uno degli scandali più sporchi che abbia insozzato la Chiesa cattolica. Ciò che venne fuori, appunto, non fu solo lo scandalo in sé, ma un «sistema» che aveva fino a quel momento consentito un’omertà criminale. Preti che avevano abusato di bambini spostati da una parrocchia all’altra, senza fare nulla per impedire il ripetersi di abusi, stupri e violenze. «Nella realtà - spiega Andrea Tornielli, giornalista cattolico, vaticanista alla “Stampa”, autore di numerosi libri sulla Chiesa e sul Vaticano - fu con l’allora cardinale Ratzinger, alla guida della Congregazione per la dottrina della fede, che nell’ultimo periodo di pontificato di Wojtyla si cominciò ad adottare una linea dura. Poi, con Ratzinger divenuto papa, il cambiamento di rotta fu più evidente: inasprimento delle norme, processi più rapidi. Dal 2010 è previsto anche un procedimento con rito direttissimo per la riduzione allo stato laicale dei sacerdoti riconosciuti colpevoli di atti di pedofilia».

Martin Baron, direttore del Boston Globe ai tempi dell’inchiesta condotta dal pool di Spotlight, oggi al Washington Post, conserva un atteggiamento scetticamente critico: «Quattordici anni dopo - ha scritto - la Chiesa cattolica continua a dover rispondere del perché ha nascosto comportamenti così gravi su scala così ampia e dell’ineguatezza delle sue riforme». Non la pensa così Tornielli: «Non condivido l’opinione di alcune associazioni di familiari di vittime - dice - che sostengono che nulla sia cambiato. Non è vero. Oggi c’è un atteggiamento totalmente diverso rispetto al passato. Penso anche che un inasprimento delle norme non basta. Di questo si è dimostrato ben consapevole papa Francesco, che non solo su questa questione è sempre stato nettissimo e durissimo, ma ha ha indicato, con lungimiranza, la necessità di un mutamento culturale, di sensibilità. Va detto che dagli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta, le cose cono cambiate: non mi riferisco solo alla Chiesa, ma alla tendenza sociale a nascondere. Poi, certo, magari ci sono ancora alcuni vescovi che vorrebbero occultare, non far sapere. Ma l’atteggiamento generale è cambiato».

È sempre Martin Baron a rivelare i suoi dubbi sul film, quando era ancora in fase di progettazione. Dice che temeva che non potesse destare interesse. Dice anche che «in molti provano antipatia per i giornalisti, e i film sul giornalismo hanno spesso faticato a trovare un loro pubblico». Già. I giornalisti sono antipatici. Perché non raramente sono giornalisti servili. E complici del potere. Gianluigi Nuzzi è quello che si definisce «un giornalista d’inchiesta». Conduttore televisivo a La7, è autore di «Vaticano s.p.a.» e «Sua Santità. Le carte segrete di Benedetto XVI»: libri che non hanno certo allietato il predecessore di Francesco.

«Il mio sogno - racconta - è sempre stato quello di far parte di un gruppo d’inchiesta come quello dei cronisti di Spotlight.
Ma questo, purtroppo, nella tradizione del giornalismo italiano non esiste. Certo, L’Espresso ha avuto una lunga tradizione di giornalismo investigativo e anche Feltri e Belpietro, negli anni Novanta, diedero vita a un gruppetto di giornalisti con il compito specifico di indagare sull’Affittopoli romana di quegli anni. Report, per la tv, è un bell’esempio di giornalismo: ma lì sono battitori liberi, artigiani in proprio che realizzano i loro servizi. La cultura investigativa e la logica del pool sono un’altra cosa. “Il caso Spotlight” è interessante proprio perché affonda il bisturi nello scandalo della pedofilia, mostrando il sistema di protezione e connuivenza. Io credo che il futuro della carta stampata, assediata dalla concorrenza del web, stia proprio nell’inchiesta e nelle opinioni. Il giornalismo d’inchiesta è dispendioso, costa: ma è quello che oggi può fare la differenza».
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