Il futuro riparte dalla tendopoli
Il sindaco: «La sfida è restare»

Il futuro riparte dalla tendopoli Il sindaco: «La sfida è restare»
di Francesco Romanetti-inviato
Venerdì 26 Agosto 2016, 00:38
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Amatrice. Aleandro non sa niente. Forse non glielo diranno mai o forse lo saprà solo quando sarà grande. E forse avrà solo un vago ricordo di una strana estate ad Amatrice, quando una notte il papà e la mamma lo portarono a dormire sotto una tenda. Aleandro non sa niente, non sa che dieci dei suoi amichetti, dieci bambini che giocavano con lui, sono morti. Alcuni andavano all’asilo con lui, altri erano più grandicelli. Aleandro ha 5 anni. Ora corre su e giù per il Parco Giochi Padre Minozzi, diventato accampamento per una notte, tra le tende, le panchine e lo scivolo. «Vrum, vruuumm», grida allargando le braccia come le ali di un aeroplano. Lucia Di Leri è sua mamma. Le gote rosse, gli occhi stanchi. Scuote la testa: «No – dice – purtroppo penso che Amatrice è finita. Non c’è più. Non so chi avrà voglia di ricominciare. Ma non tutti hanno tempo per aspettare. Questo paese verrà ricostruito, in parte. Ma i giovani non staranno ad aspettare. Andranno via. Già prima era difficile avere un lavoro. Ora sarà peggio».
Quasi duecento morti. Il corso principale cancellato. Macerie, distruzione. E il terrore che torna ogni volta che la terra torna a tremare. Come l’altra notte, con una scossa di magnitudo 4,5 che ha di nuovo svegliato chi era riuscito ad assopirsi. O come ieri pomeriggio, alle due e trentasei, magnitudo 4,3: un forte boato, altre mura che cadono, due case del centro che si abbattono, i segnali stradali che dondolano, le auto ferme che sobbalzano, la torre del campanile della Chiesa di Sant’Agostino che si incrina perdendo antichi mattoni che si sbriciolano sul sagrato. «Maledetto, maledetto, no, no, basta», grida una donna, quasi si rivolgesse al terremoto come a un demone gigantesco. La figlia esce dalla tenda quando la terra ha smesso di scuotersi e le va vicino. «Mamma, dai, calmati, calmati».

È difficile, mentre ancora si estraggono corpi maciullati dalle case crollate, immaginare un futuro. Ma non tutti vogliono andarsene. «Sono nato e cresciuto qui, tra queste montagne e queste foreste, tra i faggi, i cerri e i castagni. E qui resto – dice Emilio Sagnotti, faccia abbronzata e barba grigia - Ho 62 anni, faccio il boscaiolo, uno dei miei figli lavora con me, l’altro alleva le pecore: dove dovrei andare? Qui ci conosciamo tutti. Conoscevo praticamente tutte le persone che sono morte. E adesso, almeno adesso, la mia speranza è una sola: incontrare qualche amico, qualche faccia conosciuta, e saperlo tra i vivi».
Il sindaco, Sergio Pirozzi, da due giorni ha ripreso a fumare. Barba incolta, stessa felpa blu (con la scritta «Amatrice»), che indossa dalla notte tra martedì e mercoledì. «Lo dico dal primo momento – ripete – la cosa peggiore sarebbe proprio lasciarsi vincere dalla disperazione e andare via. E invece bisogna restare, bisogna andare avanti. Lo so, capisco che ora molti vorrebbero scappare, ma la sfida che ci aspetta è proprio questa: far rinascere questo paese con coraggio. Sarà che io ho la testa dura dei montanari, ma non mi arrendo». Mentre parla gli arriva una telefonata. «No, no – dice a chi lo sta ascoltando - Digli che sennò vengo giù io e li crocchio: la raccolta dei rifiuti deve riprendere assolutamente. Domani faccio un’ordinanza. Devono uscire i mezzi, deve uscire il personale. Dobbiamo dare un segnale chiaro: la macchina del Comune non si ferma».
Vista dai Monti della Laga, che incombono maestosi, Amatrice deve apparire dall’alto come una terra ferita e spaccata, un paese messo sottosopra, dove si muove un formicolìo di soccorritori, carabinieri, vigili del fuoco, poliziotti, guardia di finanza, forestale, unità cinofile, scavatrici, ambulanze, protezione civile, croce rossa, speleologi, giornalisti di mezzo mondo, volontari di tutti i tipi... Va bene l’aiuto di tutti, ma forse una presenza troppo massiccia comincia a creare anche qualche inconveniente. Per esempio come quello della spazzatura. O come quello dell’arrivo di generi non sempre necessari. «Faccio un appello – dice il sindaco – Non mandate cibo, ma quello che può servire a tornare alla normalità: che so, cavi per i telefonini, caricatori per i cellulari...».

La faglia che ha squassato Amatrice corre proprio qui sotto. Dal paese ai monti. Le scosse di assestamento non danno tregua. Ieri sera si preparava la terza notte fuori dalle case. Quattro tendopoli circondano il paese: dal campo sportivo alla piana dello scoiattolo, da quella della frazione Sant’Angelo a quella di San Giusto. In tutto, per più di mille posti. Paolo Giachini ha 23 anni e fa un po’ il muratore e un po’ l’elettricista. Come gli capita («Bisogna arrangiarsi da queste parti»). Lui è uno di quelli che l’altra notte s’è accampato per conto suo nel piazzale erboso davanti al Palazzetto dello Sport, con una piccola tenda canadese, insieme con il suo cane: una lupa cecoslovacca, che si chiama Aida. Racconta: «La mia casa era al vicolo Madonna della Porta, una piccola traversa del corso principale. Le case lì erano fatte con le pietre e spesso sopra ci avevano costruito tetti in cemento armato. Io per fortuna mi sono salvato, la mia casa ha retto. Ma lì è morta un sacco di gente. Una famiglia intera con padre, madre e due bambini. È morto pure un ragazzo, Marco Santarelli, di Roma, che era venuto ad Amatrice per starci solo qualche giorno. È stato terribile. Ma io non me ne voglio andare: di sicuro resto qui. Secondo me ci vorranno almeno dieci anni per ricostruire solo la metà di Amatrice. Sarà difficile vivere qui. Ma ci proverò».

Il dopo. Il dopo, difficile da intravedere, ma che comunque ci sarà. «Sa come si chiama il lavoro che sto facendo con adulti e bambini sotto le tende? After shock, dopo lo shock. È duro, è complicato, ma indispensabile». Nanina Colore, si occupa di «aut-art», supporto alla disabilità e di sostegno psicologico nelle situazioni di crisi. Ed è anche un’artista. Ha terminato appena una settimana fa di dipingere il grande murales, lungo 42 metri, che rappresenta il percorso naturalistico nei boschi di Amatrice. Nella tendopoli del campo sportivo è venuta con uno psicologo, fin dalle prime ore dopo la distruzione del paese. «Le racconto di Alessandro. Ha 11 anni. Era figlio unico e sono morti tutti e due i suoi genitori. Lui è riuscito a salvarsi gettandosi dalla finestra. Di storie come la sua, o crudeli come la sua, purtroppo ce ne sono tante. Per esempio come quella del giovane proprietario di un bar della piazza, che ha perduto la moglie e il figlio, schiacciati sotto le macerie. Dire che Amatrice deve continuare a vivere, vuol dire fare i conti con le storie e il tragico vissuto di queste persone. Ma le cose stanno così. O ricominciamo da questo o finiamo di vivere anche noi».
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