La ferocia e le misure estreme

di ​Isaia Sales
Giovedì 21 Aprile 2016, 01:16
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Il raid contro la caserma dei carabinieri nel quartiere di Secondigliano a Napoli tutto è tranne che un atto occasionale. Sicuramente il bersaglio non è casuale. Casi del genere, cioè attacchi armati a una caserma, sono rari nella tradizione dei clan napoletani che pure si sono caratterizzati per una più accentuata conflittualità con le forze dell’ordine, soprattutto in occasione di arresti eccellenti. Più che un atto intimidatorio sembra una risposta rabbiosa a qualche misura repressiva che nella mente dei criminali si è mossa fuori dagli strumenti giudiziari che i rappresentanti della legge usano abitualmente nei loro confronti. Si fa largo, come riferisce qui a fianco l’articolo di Leandro Del Gaudio, l’interpretazione di una reazione a un provvedimento del Tribunale dei minori di Napoli di allontanamento di due figli di un boss dalla famiglia naturale. Se così fosse, si dimostrerebbe che valore dirompente ha per i clan di camorra la scelta di usare questa particolare misura coercitiva da parte della magistratura napoletana, sulla scia di analoghe iniziative prese da qualche tempo dalla magistratura di Reggio Calabria, dove si è arrivati ad usare anche l’istituto della decadenza dalla responsabilità genitoriale all’interno di una più ampia strategia di contrasto alla ‘ndrangheta.
Provvedimenti di questo tipo hanno un valore dirompente superiore a quello che ha rappresentato la confisca dei beni e delle ricchezza dei mafiosi nella storia del contrasto alle mafie. È evidente che colpire i mafiosi negli affetti ha delle conseguenze sociali e umane maggiori che colpirli nelle ricchezze. 

Per i mafiosi le ricchezze perdute con la confisca possono essere ricostruite, quelle affettive no. E loro mettono in conto che i soldi sottratti a qualcun altro (o che hanno accumulato contro le leggi) possono perderli. I figli no, non li hanno sottratti a nessuno, e dunque è fuori dal loro orizzonte la possibilità che vengano considerati beni (affetti) che entrano a far parte del contenzioso tra chi applica la legge e chi la calpesta.
A mio parere questo provvedimento è l’estrema applicazione di una linea coercitiva sulle mafie che ha indubbiamente una sua coerenza, e che prende in concreta considerazione la rottura della trasmissibilità del modello camorristico dai genitori ai figli; ma è, al tempo stesso, una linea che affida la battaglia contro la riproducibilità del contesto educativo mafioso ad una misura tra le più delicate che si possono usare in materia, ma soprattutto foriera di grandi lacerazioni sociali e affettive. Sono provvedimenti che intervengono sulla stabilità emotiva dei minori, sulla continuità dei loro affetti, e perciò radicali e traumatici. Se l’orizzonte è solo quello repressivo, la misura è coerente; ma siamo sicuri di dover accettare questo unico orizzonte nella lotta alla criminalità e sacrificare ad esso ogni altra considerazione? 
Indubbiamente anche sul piano sociale e culturale chi sceglie di applicare misure così cogenti (l’allontanamento dei minori da uno dei due genitori o da entrambi, o addirittura la perdita della patria potestà per i mafiosi) ha delle forti argomentazioni.

Intanto le norme sono già applicate in altri campi e in altre famiglie non criminali. Molti provvedimenti sono motivati da abusi sessuali, da uso abituale di alcol e di droghe che impediscono al genitore (al di là della sua volontà) di garantire al figlio una valida educazione. Va ricordato inoltre che l’istituto della decadenza non nasce solo dalla specifica colpa o dallo specifico dolo dei membri della famiglia, ma dalla constatazione della impossibilità di trasmettere una educazione positiva al minore, al di là della stessa volontà dei genitori. E in ogni caso sono provvedimenti a tutela del minore e del suo diritto a ricevere un’educazione positiva che gli apra altre strade e altri orizzonti per realizzarsi nella vita fuori dal mondo criminale. In questo senso il provvedimento ha una sua socialità perché si preoccupa del minore e al tempo stesso degli effetti sulla società di una continuità del modello educativo criminale. Si intende così spezzare la continuità dell’agire malavitoso di padre in figlio, di incrinare la riproducibilità del modello appreso tra le mura domestiche.
 
I magistrati partono poi dalla constatazione che in genere i minori che delinquono provengono quasi tutti da famiglie i cui genitori hanno avuto precedenti penali, da famiglie in cui i genitori non tengono distinta l’attività criminale dall’educazione ai figli, e propongono se stessi e le loro azioni come unico modello possibile. Quale serenità può garantire un genitore che nasconde la droga da spacciare nel pannolino del figlio di tre anni o nella tasca dell’altro figlio di 5 anni? Quale serenità può offrire una famiglia in cui il padre dorme con la pistola sotto il cuscino e per lavoro fa il killer? Quale serenità può garantire chi porta con sé il figlio di 11 anni al summit mafioso e lo fa partecipare alla pulizia delle armi? Camorrista o mafioso non si nasce ma è più facile diventarlo dentro una famiglia che fa quell’attività. Come si vede gli argomenti non sono banali e hanno una loro forza. Eppure, lo ripeto, si muovono dentro un orizzonte ristretto.

Anche in famiglie mafiose ci sono stati non pochi casi di affrancamento senza l’allontanamento forzato dei figli. Da Nunzio Giuliano a Peppino Impastato, da Rita Atria a Lea Garofalo. La recuperabilità è una di quelle grandi utopie che sono però il lievito della storia dell’umanità. Ma la recuperabilità oggi non è un tema di grande interesse. Non ci sono risorse né volontà. Tutti viviamo nella illusione di affidare la nostra sicurezza nelle mani delle istituzioni preposte, rivendicando sempre maggiori misure che ci tranquillizzino e ci rassicurino, comprese quelle estreme che mai vorremmo che venissero usate per i nostri figli. Ma contrariamente a quanto si pensa, le forze di sicurezza si debbono occupare della delinquenza fisiologica; se essa diventa patologica, vuol dire che il “contratto sociale” non sta funzionando. Insomma, a Napoli città (e in Italia) sembra essersi chiusa definitivamente la fase storica in cui si affrontava il tema della delinquenza e dell’illegalità con le armi dell’integrazione, attraverso la scuola, il lavoro artigiano o industriale, con conseguenti modelli di comportamento diversi dall’ambiente di provenienza. E qualcuno è così irresponsabile da pensare che si possa gestire la questione criminale in qualsiasi città senza aumentare le opportunità legali di integrazione e senza proporre quotidianamente altri modelli di comportamento sociale? Senza la scuola, senza il lavoro, senza altri modelli di vita non si va da nessuna parte.
L’allontanamento dalla famiglia deve essere accompagnato da un allontanamento dalle occasioni e dalle opportunità criminali. Altrimenti ci allontaniamo tutti dall’umanità.
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