La forma dell’acqua
al tempo della siccità

di Luigi Covatta
Domenica 25 Giugno 2017, 23:55
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Fino al 1957, quando venne aperta la condotta sottomarina dell’Acquedotto campano, le isole d’Ischia e di Procida ricevevano l’acqua da una nave che una volta al mese rimboccava le cisterne di cui ogni famiglia era dotata, nelle quali comunque veniva raccolta l’acqua piovana che scorreva dai tetti, ed alle quali chi poteva affiancava un pozzo d’acqua sorgiva: e senza che l’oggettiva scarsità di risorse idriche impedisse agli ischitani di coltivare i vigneti che allora coprivano l’isola, ed ai procidani di produrre limoni ed ortaggi di qualità e dimensioni inusuali. 

D’altra parte dove l’acqua era fin troppo abbondante, ma scorreva (o stagnava) disordinatamente, fin dal Rinascimento provvedeva l’ingegneria idraulica, talvolta unendo l’utile al dilettevole. Nel Castello Estense di Ferrara, per esempio, c’è ancora un imbarcadero dal quale i duchi potevano raggiungere le loro “Delizie” (residenze estive di campagna) attraverso una rete di canali artificiali che contestualmente servivano sia a bonificare le paludi del Delta del Po sia ad irrigare i frutteti ricavati dalle bonifiche. 

Da sempre, insomma, la tecnologia corregge la natura ed aiuta gli uomini a dissetarsi, a lavarsi e a coltivare la terra: perfino ad Ischia, dove i fiumi sono solo sotterranei e quasi mai trasportano acqua dolce, ci sono i resti di un acquedotto romano, che evidentemente con qualche marchingegno veniva alimentato.

Paradossalmente, però, proprio nell’epoca in cui la tecnologia trionfa su tutto, e perfino i consumi individuali (ed i flussi elettorali) sembrano governabili attraverso un algoritmo, nel caso della scarsità delle risorse idriche prevale da tempo un’ideologia regressiva, pauperista e catastrofista: tanto che una volta, molti anni fa, su un settimanale a larga diffusione un ambientalista fra i più illustri deplorava l’uso della doccia quotidiana (suggerendo di sostituirla coi costumi dei popoli arabi, che usano l’acqua solo per pulire «i punti giusti» del corpo), e riabilitava il vizio della «scarpetta» per evitare lo spreco d’acqua nel lavaggio dei piatti.

Pure da sempre, e senza bisogno di referendum, si sa che l’acqua è un bene pubblico: il cui consumo, peraltro, è inevitabilmente privato. Ed è proprio per comporre questo conflitto d’interessi che il conte di Cavour, il quale era un grande statista anche quando si occupava “de minimis”, inventò i consorzi di bonifica: organismi di diritto pubblico partecipati e governati però dai privati proprietari che l’acqua la usavano per irrigare i campi o per coltivare il riso.
I consorzi esistono ancora, ed ancora hanno qualche voce in capitolo nel governo delle risorse idriche: affiancati peraltro dalle Regioni, dalle Autorità di bacino (i cui ambiti di competenza raramente coincidono coi confini regionali, perché i fiumi scorrono dove vogliono), da vari ministeri (Infrastrutture, Ambiente, Agricoltura), nonché da numerose municipalizzate, alcune delle quali addirittura quotate i borsa perché affaccendate anche in tutt’altre faccende.

Ieri su questo giornale Davide Tabarelli ha esaurientemente illustrato i risultati di questo sistema di governance; e da parte sua Corrado Ocone, ricordando Stefano Rodotà, ha efficacemente descritto l’humus culturale che ha alimentato la retorica dei “beni comuni” (e che fu alla base del referendum sull’acqua “pubblica”). Ora, superata a suon di milioni l’ennesima emergenza proclamata a gran voce dalla Coldiretti (“quantum mutata ab illa” che prediligeva la navigazione fra le correnti democristiane), sarebbe il caso di rifarsi alla saggezza pragmatica del conte di Cavour: magari non per riesumare consorzi a loro volta trasformatisi in carrozzoni, ma per utilizzare pragmaticamente le tecnologie disponibili per evitare lo spreco dell’acqua “pubblica”. Come fece nel 1957 la Cassa del Mezzogiorno: che sarà pure stata anch’essa un carrozzone, ma mai quanto lo furono poi gli enti generati dal regionalismo degli anni ’70 e dal federalismo con cui abbiamo inaugurato il nuovo secolo.
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