La Libia esplode, ci vuole coraggio

di Andrea Margelletti
Giovedì 7 Gennaio 2016, 23:34 - Ultimo agg. 8 Gennaio, 00:03
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Semmai ce ne fosse stato bisogno, quello che è successo ieri a Zlitan dimostra come il Daesh in Libia non sia solo una sporadica bandiera issata qua e là da qualche buontempone. Non solo perché l’attentato alla caserma della polizia libica rappresenta un esempio di capacità operative e mezzi a disposizione di un gruppo terroristico, ma anche perché è arrivato dopo un periodo in cui le azioni dei rappresentanti del Califfato in Libia hanno comprovato gli obiettivi del gruppo: gli scontri di inizio settimana nei pressi degli impianti petroliferi di Sidra è un chiaro segnale di come la leadership del Daesh voglia riproporre lo schema adottato dal gruppo in Siria e in Iraq.

Non solo controllo di un territorio strategico sempre più ampio (il Golfo della Sirte, per l’appunto), ma, soprattutto, mettere le mani sulle ricchezze petrolifere che possano garantire uno sviluppo “sostenibile”. Come cellule tumorali, il Daesh cresce e si espande in un disegno chiaro che vede ora nel nostro dirimpettaio libico un ventre molle dove potersi inserire, grazie all’anarchia, alla mancanza di istituzioni, alla facile reperibilità di risorse. Non è più solo una lotta per accaparrarsi la guida del panorama jihadista nel Paese, tra la vecchia leadership di Derna e le nuove leve allevate nel brodo primordiale di Ansar al-Sharia, ma una vera e propria azione del Daesh, verosimilmente coordinata o, comunque, in accordo con il cervello del gruppo a Raqqa, per preparare in Libia un nuovo tassello nella costruzione del Califfato.

Se non fosse per questo piccolo particolare, si potrebbe anche sposare un atteggiamento positivo nei confronti della ricostruzione istituzionale impostata dalle Nazioni Unite e dalla comunità internazionale nell’ultimo mese, anche grazie al contributo, sì, fondamentale, del nostro Paese. Una cosa, però, l’ultimo plateale attentato può e deve necessariamente smuovere nelle agende occidentali: la necessità forte e decisa di supportare questo cammino politico con un parallelo percorso di sicurezza. E qui si apre la questione. Da più parti, molto più spesso ultimamente, a dire il vero, si parla della possibilità o, anzi, della necessità, che una missione di stabilizzazione in Libia sia guidata dall’Italia. In questa sede tralasciamo tutti i war game che tanti si divertono a fare in questi giorni, quegli stessi che si riempiono tanto la bocca con la parola guerra, ma poi i propri figli non ce li mandano a combattere.

Vista l’esperienza accumulata negli ultimi vent’anni e grazie alla preparazione e all’addestramento sviluppati, le nostre forze armate non avrebbero problemi a svolgere un così delicato ruolo. Non è un caso che il generale Serra sia stato chiamato a supportare Kobler in questa impresa titanica. Il bandolo della matassa, però, risiede nella ricerca di una reale volontà politica che possa supportare una tale decisione. Le forze armate sono uno strumento attraverso il quale si può dare compimento ad una politica estera. Da una parte, quindi, senza falsi buonismi e ipocrisie, occorre che vengano impiegate facendogli fare quello che sanno fare al meglio, e cioè i militari e non le forze di polizia. Dall’altra, però, occorre un mandato chiaro, con dei tempi e degli obiettivi stabiliti con lucidità e lungimiranza, evitando di mettere i buoi davanti a un carro che poi si vedrà se arriverà.

Dunque, sì sostenere militarmente il percorso politico intrapreso, ma con chiarezza. Se vi è bisogno che la coalizione internazionale addestri le nuove forze armate libiche, ben venga. Se si deve fornire un supporto di sicurezza per disarmare le milizie e ricreare un framework governativo comune, ben venga. Se si riterrà di mettere a disposizione gli strumenti adatti per arginare l’avanzata del Daesh, ben venga. Ma tutto questo deve avvenire in accordo con le realtà libiche, evitando il rischio che una missione di stabilizzazione sia percepita come un’invasione occidentale e, soprattutto, non lasciando che il contingente internazionale rimanga schiacciato dalle dinamiche interne di un Paese ancora tutto da costruire.

In questo, però, il nostro governo deve avere la consapevolezza che non possiamo più nasconderci dietro l’eterna ricerca della coalizione internazionale perfetta, ma ci si deve assumere quelle responsabilità che la comunità internazionale sta indicando. Gli strumenti ci sono, deve essere indicata la politica alla base delle scelte. Anche perché non ci sono neanche più le parole per dire che il tempo per la Libia è scaduto da un pezzo.

 
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