«La mia estate stile “safari”
parlando solo africano»

di Raffaella R. Ferré
Giovedì 1 Settembre 2016, 00:34
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Giornalista, documentarista, autore televisivo, due volte Premio Giornalistico Televisivo Ilaria Alpi, ex inviato delle Iene, una laurea in Studi Africani ed Economia dello Sviluppo alla Soas, la School of Oriental and African Studies di Londra: Pablo Trincia è un bel ragazzo di 39 anni, uno dei volti più noti e amati della tv e del web italiano. Nato nell’allora Germania dell’est, le sue origini tedesco-siriane gli hanno lasciato l’amore per il viaggio e per le lingue: da un video postato su YouTube si evince che ne conosca almeno trenta. E forse anche qualcuna in più giacché mi propone di far tutta l’intervista in dialetto napoletano. Ci proviamo, almeno per la prima domanda. 

Sei nato a Lipsia, poi ti sei trasferito con la famiglia a Milano e per continuare gli studi ti sei spostato in Inghilterra. Per lavoro sembri aver girato mezzo mondo. Se ti dico estate, anzi, staggione, qual è il la prima cosa che ti viene in mente, dov’è localizzato il ricordo? 
«Per me la “staggione” è Santa Marinella, provincia di Roma, casa di mia nonna. I miei primi ricordi estivi hanno tutti lo scenario di questa piccola cittadina sul mare». 

Conosci tante lingue: le più note, le africane, il farsi, il russo. Ma qual è la parola che per te meglio racchiude il senso dell’estate? 
«È una parola che conoscono tutti e cioè “safari”. Per noi indica l’escursione in una riserva o in un parco, ma in origine significa “viaggio” perché viene dall’arabo “sàfar”. In Swahili, una delle lingue che ho studiato, parlata in molte regioni dell’Africa, viaggiare, partire, si dice proprio “kusafiri”». 

Stanno andando in onda le repliche di Lupi, il programma del Nove nato da un progetto Discovery Italia e realizzato da Pesci Combattenti. Ha avuto successo e riprenderà con i nuovi episodi il 18 settembre, alle 23. Quali saranno i temi? 
«La prima puntata è incentrata sugli jihadisti a Ceuta, un’enclave spagnola in Africa di importanza strategica per i flussi migratori che è diventata la cellula jihadista più pericolosa per l’Europa. La seconda, invece, sarà sul coltan: si tratta di un minerale di cui magari non tutti hanno sentito parlare ma che tutti abbiamo nel telefono cellulare, nei pc e che viene estratto dalle miniere al confine con il Ruanda. Per la tecnologia è una risorsa insostituibile ma la sua produzione è diventata oggetto di traffici illegali. Sulle altre non posso dire molto se non che sono già a lavoro: in realtà non ho mai staccato!». 

Le droghe sono state al centro di un’altra puntata. A questo proposito, qual è secondo te la sostanza più pericolosa attualmente in circolo? 
«Oggi vengono create sostanze stupefacenti sintetiche ogni giorno, cambiando una molecola. Di queste droghe nate in laboratorio non solo non conosciamo gli effetti ma fino a quando non vengono schedate e identificate possono essere acquistate online da chiunque: ecco la cosa più pericolosa». 

Ho letto che per te, però, la vera e tra molte virgolette droga, è la corsa!
«Sì, sono diventato un appassionato! Non pensavo che mi potesse capitare perché ho sempre fatto sport di squadra, ma dicono che ormai è diventato un classico per gli uomini che si avvicinano ai 40 anni, come una crisi di mezza età: dopo aver lasciato il calcetto con gli amici anche per paura di farsi male, dopo aver mollato la palestra per ragioni di tempo, ecco che arriva la corsa! Nel mio caso, poi, è diventata importante perché è qualcosa che posso fare ovunque, mi bastano un paio di scarpette e dei pantaloncini. Domani, ad esempio, potrei venire a Napoli per lavoro e approfittarne per una corsetta sul Lungomare Caracciolo!». 

So anche che sei presissimo da una serie tv, argomento: la scienza...
«Si tratta di “Cosmos”, un documentario televisivo statunitense ma sono fissatissimo anche con il podcast delle serie radiofoniche americane. Anche in questo caso, la cosa figa è che puoi ascoltarle ovunque, basta avere l’app giusta - Podbay - che ti dà elenco e categorie. La mia preferita è “Serial”. In realtà tra i progetti che sto mettendo in piedi c’è proprio quello di una serie per la radio, una storia vera da raccontare in più puntate, una forma di racconto che lascia all’immaginazione lo spazio che il video può, invece, togliere». 

I reporter più famosi tendono a dettare un metodo di approccio e costruzione della notizia: tu come sviluppi il tuo lavoro, da cosa parti? 
«Cerco di partire dai protagonisti, da storie forti perché voglio raccontare il mondo capovolto, ma c’è anche chi personalizza e in quel caso penso a Enrico Lucci, a Pif. Io cerco di entrare con la voce, ma credo che il vero segreto sia il ritmo, una cosa che ho provato sulla mia pelle e che sfata molti miti». 

Tipo? 
«Quello che su internet vadano bene solo i contenuti brevi. La lunghezza di un video o di un articolo non conta, è il modo in cui lo porti avanti a dettare legge. Lo vedo anche con i miei bambini: sono piccoli, hanno una soglia dell’attenzione bassa, ma se tu racconti loro una storia, se la racconti bene, sono capaci di stare ad ascoltarti anche per un’ora». 

E qual è la storia più bella che hanno mai raccontato a te? 
«“The Jinx”, una serie dell’HBO stupenda, la consiglio a tutti. Poi c’è Dan Carlin, un podcaster americano che con “Hardcore History” racconta l’impero prussiano, la prima guerra mondiale e così via. Roba da 23 ore in cui c’è solo lui che parla: è stato lì ho capito che il racconto non ha limiti. E dire che di storia, intesa come materia, non mi è mai fregato molto! E poi c’è un’altra cosa che ha cambiato il mio approccio al lavoro: un articolo del New Yorker sulla storia degli ascensori. Sembra assurdo, saranno state quarantamila battute, ma leggendole ho capito che più importante ancora dell’argomento è come lo racconti. Non ci sono storie belle ma bei modi di raccontarle». 

A proposito: tu arrivi da una “scuola”, quella delle Iene, che ha consentito di sviluppare molti filoni di indagine e portarli al grande pubblico. Pensi che questo modello sia ancora adatto? 
«Quel modello continua ad essere importantissimo. È alle Iene che ho imparato a creare empatia, andare al nocciolo delle questioni, entrare dentro una notizia, che si tratti di quello che cerca di rifilarti un pacco all’inchiestona. Sono ancora tutti miei amici, li vedo spesso e per me rappresentano i compagni di una scuola di vita. Perché è vero quello che si dice: a livello sia umano che professionale, una volta che sei stato una Iena, lo sarai tutta la vita». 

Un’ultima cosa. Hai anche un altro autore di riferimento, nel nome: ho letto che sei stato chiamato Pablo in onore del poeta Pablo Neruda, come accade ne “Il Postino” di Massimo Troisi.
«Esatto: mio mio nonno materno, un attivista politico iraniano, l’ha conosciuto, ne parlava spesso e così, visto che il nome piaceva anche ai miei genitori, eccomi qui». 
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