La prova del nove per il Jobs Act

di Nando Santonastaso
Sabato 23 Settembre 2017, 23:45
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Il governo alza l’asticella della ripresa, l’1,5 per cento di Pil anche per il 2018 sembra possibile almeno alla luce dell’andamento economico attuale e di quello previsto per il nuovo anno. Ma è intorno al jobs act e più in generale alle politiche attive del lavoro, quelle cioè che puntano direttamente alla creazione di nuova e stabile occupazione, che passerà inevitabilmente ogni progetto credibile di crescita e di sviluppo.

Persino la riduzione delle tasse, indicata tra le assolute priorità di un programma comunque condizionato dalle elezioni di primavera e ovviamente al loro esito, ne dovrà tenere conto: più occupazione vuol dire più investimenti, più consumi e dunque maggiore possibilità di tagliare la spesa pubblica e di impiegare produttivamente i soldi pubblici e privati. Dunque, il jobs act, come e più di prima: ma anche meglio di prima, perché se è vero che 900mila nuovi posti di lavoro in tre anni non sono pochi, è altrettanto vero che molti di essi non sono ancora garantiti da contratti a tempo indeterminato e che resta elevato anche il numero dei rapporti di lavoro basati su prospettive salariali a dir poco insoddisfacenti. Non è ormai un mistero che la riforma del lavoro pure apprezzatissima dall’Ue e in qualche modo persino invidiata dai francesi (che però l’hanno oggettivamente resa molto più dura di quella italiana), abbia finito per privilegiare gli over 50, favoriti anche dalla riforma Fornero delle pensioni. E non è nemmeno inutile sottolineare che misure strategiche per incentivare l’occupabilità dei giovani, come l’apprendistato, non abbiano finora fornito risposte adeguate all’emergenza lavoro, specie nel Mezzogiorno che pure sa marciando a ritmi finalmente quasi normali. C’è insomma l’esigenza di rivedere il meccanismo ma senza stravolgerlo perché la strada è buona, sebbene ancora lastricata di incognite. Ma c’è soprattutto da verificare la disponibilità delle aziende, più volte a ogni livello sbandierata, di voler camminare al fianco dell’esecutivo per assicurare lavoro a tempo pieno agli under 30. Che questa strada debba passare ancora per gli incentivi alle assunzioni bisogna prenderne atto: al momento non ci sono alternative altrettanto praticabili in tempi rapidi. Ma occorre anche che l’investimento, privato e pubblico, nell’occupazione sia serio e persino inevitabile. Nel senso che cambiare passo al Paese attraverso il protagonismo e la competenza dei giovani deve diventare un imperativo categorico.

Già, competenza: sono tanti e troppi gli under 30 e 35 confinati nella dimensione degli esclusi che al contrario meriterebbero più di una chance per risalire l’ascensore sociale e assicurare il sempre più indispensabile ricambio generazionale finora loro negato. Giovani laureati o diplomati, professionisti senza prospettive, cervelli costretti alla fuga: sono spesso il terminale di quei nuovi saperi che passano attraverso l’innovazione tecnologica e la ricerca ma dei quali, chissà perché, il Paese pensa di poter fare a meno. Ecco perché la sfida del jobs act non è stata ancora vinta e perché la prossima legge di Bilancio sarà decisiva. Il governo ha promesso di crederci anche se la sua prospettiva è di breve durata: di sicuro fermarsi ora sarebbe un errore catastrofico, pasticcio, un cataclisma politico ed economico che sprofonderebbe il Paese di nuovo nel tunnel della recessione senza speranza. E decreterebbe la scomparsa del Sud, senza appelli e senza ripescaggi.
 
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