La vittima di giustizia e il ladro che la fa franca

di Gigi Di Fiore
Giovedì 12 Ottobre 2017, 22:29
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Un sindaco accusato di mafia assolto dopo sei anni, un ladro scoperto mentre ruba un’auto lasciato libero dal giudice. Accade in Campania, accade nello stesso giorno. La giustizia e i suoi paradossi, le sue lungaggini, le sue attese. L’illogicità di procedure dai tempi impossibili e discrezionalità giudicanti che lasciano sorpresi. C’è un piccolo pregiudicato scoperto con le mani nel sacco, pronto a rubare un’auto con tanto di cacciavite per aprire la portiera, torcia e chiave inglese. I carabinieri lo sorprendono, lo arrestano, il pm chiede gli arresti domiciliari motivati anche dai precedenti del giovane. 

Il giudice monocratico, siamo al tribunale Napoli nord, scrive che sì il fermato ha precedenti, c’è rischio che possa «reiterare» il reato, che per la sua personalità meriterebbe un luogo idoneo dove rimanere agli arresti. Ma - c’è sempre un ma nei ragionamenti giurisprudenziali - gli arresti domiciliari sono a rischio perché il fermato è evaso più volte. Non si può certo affibbiargli misure inferiori, come l’obbligo di firma, né per il codice il giudice può disporre una detenzione più grave rispetto alla richiesta del pm. Risultato: libertà al fermato. È una specie di resa di fronte alla realtà, sostenuta da precedenti e ampia produzione di decisioni analoghe.

La giustizia alza le braccia di fronte all’inadeguatezza del sistema. “Summum ius, summa iniuria” è il detto latino della «somma giustizia, somma ingiustizia». Il contrasto perenne tra ciò che è giusto e ciò che è legale, tanto caro a Norberto Bobbio che ci ha scritto profonde riflessioni. Nel diritto la forma è sostanza e la verità processuale non sempre coincide con quella storica. E a queste riflessioni porta anche la vicenda di Alberto Gambino, già sindaco di Pagani, arrestato, processato, sospeso per la legge Severino 57 mesi su 62 di attività consiliare. Dopo sei anni, è stato definitivamente assolto dalla Cassazione.

Alla conferenza stampa che ha convocato, lo hanno visto piangere. Assolto, ma ha dovuto affrontare un’attesa non breve di sei anni, tra inchiesta e dibattimenti. Qualche giorno fa, al dibattito per la presentazione del libro dell’ex presidente della corte d’appello, Antonio Buonajuto, il presidente emerito della Corte costituzionale, Paolo Casavola, confessò di aver avuto sempre timore di dover finire a fare il magistrato. Il motivo? L’incubo della scelta, la dura angustia del dover decidere il destino di qualcuno, incidere sulla sua vita, schiacciato dalle norme e oppresso dalla coscienza. Il dramma del giudice, materia di tanta letteratura. Ma al centro, c’è anche la discrezionalità del magistrato, criterio risolutivo di ogni decisione.

Vanno bene le norme, le fattispecie della legge, ma, tra le ragioni di accusa e difesa, il giudice decide con la discrezionalità, motivata giuridicamente, della sua coscienza.
Lo prevede, in modo esplicito, il codice. Gli ultimi due casi sono altre facce di una stessa medaglia, quella di una giustizia che da tempo fa i conti con i suoi limiti e le sue contraddizioni. Un tema da molti anni al centro del dibattito del Paese, su cui si gioca il futuro di una democrazia e di un’intera società. Tanti confronti e discussioni, mai soluzioni certe. E intanto capita che un ladro fermato sia lasciato libero e un accusato di mafia debba attendere sei anni per la sentenza definitiva.
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