Maradona al San Carlo,
com’è dolce questa profanazione

di ​Titta Fiore
Lunedì 16 Gennaio 2017, 23:48
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Nello sfavillio dell’oro e dei velluti rossi il teatro, ieri sera, era bello come sa esserlo solo il San Carlo a luci accese. Ma per una volta, ieri sera, è stato come se tutto quel rosso carminio si trascolorasse nell’originario azzurro voluto da Niccolini quando pose mano, giusto duecento anni fa, alla ricostruzione della magnifica sala del Medrano distutta da un rovinoso incendio. Era azzurro dentro, il San Carlo. ‎

Azzurro d’amore, di rimpianto, di nostalgia. Azzurro di speranza e di allegria. Al San Carlo, per Maradona e con Maradona, s’è fatta una festa. Una gran festa televisiva. Sul palco avvezzo a ospitare i campioni del belcanto è salito, con rispetto, un campione della vita. Né un modello né un mito, perché ben altri ce ne ha indicati la storia delle arti, ma un simbolo sì. 

Un simbolo forte di resistenza umana, e già questo ha il suo valore. Un portatore sano di creatività allo stato purissimo, capace di dare un senso speciale al più piccolo dei gesti, di concretizzare il più impossibile dei sogni. Nei chiaroscuri di un’esistenza sempre votata all’eccesso Diego ha incarnato la genialità del talento sregolato e la disperata vitalità delle emozioni, è stato fedele e sfrontato, furbissimo e fanciullo. Camminando sull’orlo dell’abisso è riuscito, miracolosamente, a evitare il precipizio, nei momenti più drammatici si è caricato sulle spalle la propria debolezza trasformandola con uno scatto di orgoglio in risorsa. In mezzo al campo, i napoletani gli avevano visto fare mille volte la stessa cosa: tutta la squadra sulle spalle, tutta l’energia per la squadra.

L’amore, lo sperdimento incantato e i cori pazzi di felicità sono cominciati allora. L’identificazione con quel ragazzo anarchico e ribelle nato solo per caso nel barrio più povero di Buenos Aires, ma così vicino al cuore della città, è scattata allora. «Ci gridava “vamos” e noi vincevamo» racconta l’amico Bruscolotti rivivendo con il medesimo batticuore i momenti cruciali di domeniche irripetibili. La gratitudine per quel legame tenace e misterioso dura ancora. 

Ed è questo sentimento, soprattutto, che ieri sera si è voluto celebrare nel teatro lirico più bello d’Europa, questo ritrovarsi, dopo trent’anni, sulla stessa lunghezza d’onda, pronti a condividere la dolcezza dei ricordi e l’onda lunga dell’emozione per come eravamo, per come siamo diventati, per come avremmo voluto essere, felici e vincenti sempre, e raramente ci capita. Si sarebbe potuto fare altrove, questa serata di «saudade» e di passione?

Naturalmente sì, è certo si sarebbero evitate le polemiche e le legittime riserve di chi temeva intaccato il prestigio del San Carlo dall’omaggio a un’icona planetaria che ha incarnato un sogno e oggi, in buona sostanza, si limita a portare a spasso la propria leggenda. E certo sarebbe stato meglio, più consono al teatro, evitare I cori da stadio sollecitati dalle riprese televisive realizzate in esclusiva da Discovery Channel. Da domani torneremo a parlare di opere e di voci, di messinscene e di maestri del podio, ma ieri i mille e trecento ‘absolute beginners’ in trasferta dal San Paolo al San Carlo hanno parlato solo ed esclusivamente il linguaggio del tifo. 

L’omaggio voluto da Alessandro Siani e condiviso da tanti artisti e ammiratori va considerato solo un anticipo della festa popolare promessa per l’anniversario dello scudetto. «Era de maggio» quando Napoli si tinse d’azzurro, dentro e fuori. Un unico colore si stese sull’anima ebbra di gioia dei tifosi e per le strade invase da una folla pacifica e insonne. «Il Maradona che avevo dentro era lo stesso che stava nella testa di ciascun tifoso del Napoli» ha detto Diego per spiegare la corrispondenza di amorosi sensi altrimenti inspiegabile perfino a lui. E se il tifo, come si dice, ‘è un virus latente che si attiva a ogni discesa in campo’, l’epifania di Diego su un campo per lui, e per noi, così insolito, ieri sera, avrà avuto almeno il merito di rendere il Blue Monday decretato dagli algoritmi internazionali un po’ meno malinconico e un po’ più pazzo.
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